Michele Lospalluto
Il piano di riordino della rete ospedaliera pugliese. E’ stato bocciato per ben due volte dalla Commissione sanità, con i voti contrari sia dell’opposizione, sia di due esponenti del centro sinistra, i quali ultimi, sono stati accusati dal Presidente Emiliano di campanilismo e di posizioni estranee ai “bisogni di salute del territorio.” Ma ai cittadini-utenti, interessa il merito, la sostanza del piano. Nel numero di FREE dello scorso mese, abbiamo riportato la protesta delle Organizzazioni Sindacali confederali, con sit-in e flash-mob, che si erano conclusi con un incontro con il Presidente Emiliano, il quale aveva accettato la proposta di apertura di un tavolo di confronto permanente, saltato totalmente dopo il primo incontro.
I difetti di questo piano. Prima di parlare di posti letto e della distribuzione disomogenea sul territorio regionale, è importante spiegare cosa è un piano e su che cosa si basa. E’ stato redatto in base alla legge 70/2015, che ne detta i criteri e gli indirizzi, tutti legati a parametri economici (l’indebitamento ed il piano di rientro hanno inciso fortemente), dove il dettato costituzionale “la salute non è un costo, ma un diritto”, non viene minimamente tenuto in considerazione. Questo piano ha gli stessi difetti dei precedenti, che non sono mai stati realizzati, almeno per le poche cose buone che prevedevano, e non è confortato, come fatto fondamentale ed essenziale, da “MODELLI ORGANIZZATIVI”, mai approvati dalla Regione Puglia e da una “INDAGINE EPIDEMIOLOGICA”, in base alla quale si determinano i bisogni di tutela della salute di un territorio e la conseguente costruzione di strutture. Quindi il piano è la traduzione, prima sulla carta e poi sul territorio, dei “modelli organizzativi”, che ne vanno a stabilire i rapporti organizzativi tra ospedale e territorio, per patologie o per aree affini o omogenee e poi dei servizi. Per fare un esempio. Il modello organizzativo per “l’autismo” è quello già suggerito dai genitori, ovvero un rapporto integrato, scuola, famiglia, territorio-servizi, che non funziona, in quanto non declarato o non sempre riconosciuto. Senza “modelli organizzativi” un piano non ha modo di esistere, è come una gran bella struttura, con bravi professionisti e con strumenti diagnostici avanzati, ma senza una organizzazione, non può mai essere efficiente ed efficace. Ben venga la “rete oncologica” (si sta discutendo in questi giorni), in il cui paziente, ha diritto a conoscere il percorso e non viene semplicemente “sbattuto” da una struttura all’altra, specialmente dopo la diagnosi, con la solita dizione “vai in quel servizio, vai….”, senza mai essere accompagnato, a partire dal medico di base. Quanto era previsto dal piano della giunta Vendola, non è mai stato realizzato: gli atti aziendali, i piani attuativi locali (PAL), le dotazioni organiche ecc.
Posti letto. Il piano prevede la chiusura (con riconversione) di otto ospedali, due a Bari (Triggiano e Terlizzi), due nella BAT (Canosa e Trani), uno a Taranto (Grottaglie) e tre a Brindisi (S. Pietro Vernotico, Mesagne e Fasano), con un totale di posti letto per acuti di 11.250, pari a 2,75 p.l x 1000 abitanti. Il decreto ministeriale n.70/2015, ne prevede il 3,0 p.l.x 1000. Quindi in Puglia ci sono lo 0,25 p.l. in meno, che fanno oltre 1000 p.l. E’ stato applicato in maniera disomogenea sul territorio regionale. In provincia di Foggia è stato applicato il 4,2 p.l. x 1000 abitanti, con abbondanti p.l. di geriatria, pediatria e neonatologia (paradossalmente non si capisce se ci sono più nascite o più anziani),oltre che di psichiatria (su una popolazione di 800 mila abitanti, rispetto alla provincia di BA che ne ha oltre un milione e mezzo) nella BAT l’1,9, in provincia di Brindisi 1,9 ed in provincia di Bari il 3,4. Non esiste una organizzazione di “rete per patologia”, che deve comprendere le strutture del territorio. La cardiochirurgia è concentrata tutta su Bari, non esiste una rete oncologica ed una rete del trauma o tempo-dipendente. La norma prevede che la spesa ospedaliera deve essere del 44%, quella della prevenzione del 5%, quella dei servizi sul territorio il 51%. Chi ha verificato i costi di questo piano, con la relativa applicazione della percentuali? Sulla delibera del piano non esiste un rapporto analitico e di valutazione della spesa. La legge di stabilità 2016, prevede che ogni ospedale deve presentare il bilancio, e tra costi e ricavi, non ci deve essere uno splafonamento superiore al 10%, non deve superare i 10 milioni di disavanzo. Se questo dovesse succedere si va nel piano di rientro, con la conseguenza dei tagli su personale, beni e servizi. La logica della determinazione e quindi della riduzione dei posti letto, è stata quella che secondo cui abbiamo troppi posti letto, è stato questo per anni il leit motiv che ha ispirato le politiche sanitarie italiane in nome del risparmio e della razionalizzazione della rete sanitaria nazionale, considerata troppo “ospedalocentrica”. Una politica del ridimensionamento dei posti letto (dal 2000 ad oggi si è passati dal 5,1 p.l. x 1000 abitanti, al 3,0), che doveva essere accompagnata da una parallela crescita dei servizi territoriali, che però stenta tuttora a realizzarsi. E l’Italia è così il paese che ha un numero di posti letto sotto la media europea.
Dotazione organica e liste di attesa. La dotazione organica, con i suoi criteri di rilevamento, non è stata approvata neanche dal vecchio piano Vendola. Sono stati fatti “provvedimenti tampone”, che non rispondono al fabbisogno al punto tale, che è ferma al 2012, ma ricavata sulla dotazione addirittura del 2004, diminuita dell’1,4% per via del piano di rientro. Infatti il mancato rispetto del patto di stabilità e lo “splafonamento” di 120-150 milioni di €, hanno bloccato il turn-over, hanno imposto i super ticket ( 10 € sulla ricetta), hanno aumentato la tassazione Irperf, hanno aumentato l’accise sulla benzina, insomma tutto si è riversato sul cittadino-utente. Questo quadro, ha fatto collocare la Regione Puglia, in terz’ultima posizione in Italia per il rapporto infermieri-posti letto ed a questo si aggiunga che l’età media degli operatori in Puglia è di 55 anni, con affezioni patologiche a volte molto gravi, che ne limitano l’attività. La legge Fornero ha fatto il resto, aumentando l’età lavorativa e limitando se non impedendo il ricambio generazionale. La forte carenza di personale, si riverbera sulla qualità dei servizi, che mette a rischio la sicurezza dei pazienti, sulle liste di attesa, che si allungano sempre di più, anche quelle oncologiche, dove i protocolli internazionali ed i tempi di attesa non sempre possono essere rispettati. I lunghissimi tempi di attesa, specialmente in branche come la cardiologia, spingono gli utenti alla mobilità verso altre regioni, ed è il caso della vicina Basilicata, dove i tempi di attesa sono più brevi e le prestazioni costano di meno, perché quella Regione non è soggetta al piano di rientro, non è” obbligata” ad imporre agli enti o servizi accreditati il cosiddetto “tetto di spesa.” La Regione Puglia imponendo il “tetto di spesa”, obbliga gli enti sanitari accreditati a non erogare più servizi se non a pagamento. Così gli utenti si rivolgono ad altre regioni, dove le prestazioni costano meno, perché dopo un badget assegnato, lì si consente di continuare ad erogare prestazioni con abbattimento di dei rimborsi del 30% o del 40%. Tutto questo spiega il perché molti cittadini pugliesi si rivolgono alla vicina Basilicata, per i tempi più brevi e per i ticket che costano meno. Oltre alle liste di attesa, la mancata assunzione di personale, ricade sulla organizzazione, sulla efficienza dei servizi e ancora più sui costi, che aumentano, perché si allungano i tempi per gli accertamenti diagnostici e quindi i giorni di ricovero.
La spesa sanitaria in Europa, al Nord e al Sud. L’Italia nel 2015 ha speso il 9,4% del PIL, contro il 10,4% dell’Europa Occidentale. Ha speso il 32,5 in meno. Negli ultimi 10 anni, dal 2006 al 2016, la spesa sanitaria pubblica è cresciuta dell’1% medio annuo, contro il 3,8% degli altri Paesi dell’Europa Occidentale. La Provincia Autonoma di Bolzano spende di più, +50%, la Calabria spende di meno, c’è un divario pro-capite superiore al -50%. La spesa privata pro-capite sul totale è del 30,5% in Valle d’Aosta, 16% in Sardegna (12° RAPPORTO SANITA’ 2016 a cura di C.R.E.A. SANITA’-UNIVERSITA’ “TOR VERGATA). Le differenze di spesa sono andate progressivamente riducendosi al Sud, fino al 2009, ma hanno poi ricominciato ad ampliarsi nel periodo successivo, in corrispondenza dell’azione dei “PIANI DI RIENTRO E DEI COMMISSARIAMENTI”, tesi al risanamento dei deficit, della minore capacità fiscale e della crisi finanziaria che dal 2009 ha ulteriormente ridotto la capacità delle famiglie più fragili di “complementare” la spesa pubblica. Sempre secondo il rapporto dell’Università di Tor Vergata, in base alle previsioni della evoluzione della struttura per età della popolazione al 2035, il Nord oggi viene finanziato per il 46,1%, per il 2035 il 47,8%, il Sud oggi per il 33,8%, per il 2035 il 31,7%. Il tutto motivato dal fatto che le regioni del Sud saranno più vecchie di quelle del Nord, il cui incremento di popolazione sarà molto più rilevante rispetto al Sud.
Ultimo dato. Il taglio di 422 milioni di Euro al Fondo Sanitario Nazionale (FSN), di cui dovranno farsi carico le regioni e la maggiore ricaduta avverrà su quelle del Sud, che hanno non solo problemi di gestione amministrativa, ma debiti per il piano di rientro e carenza di organici.
Michele Lospalluto – pukov@hotmail.it