RECENSIONE: La cronicità – Come prendersene cura, come viverla (Il Pensiero Scientifico Ed. 2019 pp196) di Dagmar Rinnenburger.

“In Italia il Piano Nazionale della Cronicità – contenente importanti innovazioni nell’organizzazione delle cure – è stato approvato nel 2016, con almeno quindici anni di ritardo rispetto a quanto veniva pubblicato al riguardo in ambito internazionale, ed è quasi dovunque inattuato, anche perché privo di finanziamenti ad hoc”: con queste parole il prof. Gavino Maciocco, docente di Igiene e Sanità pubblica presso l’Università di Firenze, promotore e coordinatore del sito web Saluteinternazionale.info, introduce un libro che disegna, con ricchezza di fonti e di esperienze mediche, italiane e straniere, la metamorfosi in atto nella medicina moderna. Una rivoluzione forse tanto profonda quanto quella scientifica dell’età moderna, quella tecnologica del XIX secolo e quella informatica ancora in corso. Una rivoluzione imposta, almeno in Occidente, dalla demografia e dall’ epidemiologia.

L’autrice del libro, Dagmar Rinnenburger, pneumologa e allergologa, – prosegue la prefazione – trasferitasi (per amore) da una clinica della Foresta Nera in Italia, tratta il tema della cronicità con grande sensibilità e delicatezza, insieme alla competenza che le deriva da una qualificata pratica clinica. E affronta la questione da varie angolature e prospettive, per lo più mettendosi dalla parte dei pazienti. Al riguardo una domanda viene spesso spontanea: cosa servirebbe per migliorare la qualità della vita dei pazienti cronici, e – nell’ottica del coping – cosa può fare l’organizzazione sanitaria per aiutare le persone ad adattarsi alle nuove condizioni?”

Intanto è necessario comprendere che “il medico che ti salva la vita” non è più quello dei grandi interventi e delle intuizioni geniali ed oscure, contrariamente a quello che persiste nell’immaginario degli studenti di medicina, dell’opinione pubblica e della informazione: deve ammetterlo anche Atul Gawande, chirurgo di Harvard nel suo Essere mortale. Come scegliere la propria vita fino in fondo. Asaf Bitton, infatti, uno dei medici dell’ambulatorio di medicina generale del quartiere popolare e multietnico di Boston, Jamaica Plain, lo convince “che avere un medico che ci cura e ci visita regolarmente, una persona che ci conosce, influisce molto sulla nostra disponibilità a rivolgerci a lui in caso di sintomi gravi. Basterebbe questo per spiegare il calo del tasso di mortalità”. “Mi ha fatto leggere – scrive Gawande – alcuni studi dai quali emerge che nei paesi dove c’è una percentuale più alta di medici generici c’è un minor tasso di mortalità, in particolare di mortalità infantile e di mortalità provocata da cause specifiche come le malattie cardiache e gli ictus”.

Se non cambia il paradigma su cui è finora organizzata la medicina si rischia di non centrare l’obiettivo di salute: “Applicare alle malattie croniche il paradigma assistenziale delle malattie acute provoca danni incalcolabili; il paradigma è quello dell’attesa, attesa di un evento su cui intervenire, su cui mobilitarsi per risolvere il problema. Ciò significa – si comprende bene – rinunciare alla prevenzione, alla prevenzione dei fattori di rischio, al supporto all’autocura, al trattamento adeguato, tempestivo e proattivo, della malattia cronica di base. Ciò significa, infine e soprattutto, infliggere un’enorme mole di sofferenze evitabili a milioni di pazienti”.

Il libro, che parla di cronicità con un linguaggio semplice e perfetto, con la delicatezza che solo la conoscenza e il rispetto del malato possono produrre, si compone di quattordici capitoli, una premessa ed una conclusione.

Nella premessa, La salute, imperfetta come la natura, si sostiene che l’ingresso nella cronicità crea un spaesamento. “Dal medico ci si aspetta un’azione risolutiva, ma questo può essere vero solo per una piccola parte dei problemi, come ad esempio una polmonite; antibiotici, riposo, controlli e tutto come prima. Ma nell’asma, nella broncopatia cronica ostruttiva, nell’insufficienza respiratoria e in tante altre situazioni, come medico posso offrire solo un attento accompagnamento e con l’adozione di una serie di misure prevenire peggioramenti e riacutizzazioni”. La cronicità è caratterizzata dalla assenza di una restitutio ad integrum. “Ripeto continuamente ai miei pazienti che cronico vuol dire che con quel problema occorre imparare a convivere, che si potrà star meglio, che in certi casi si potrà anche sospendere la terapia: ma quando il problema è cronico, inevitabilmente si ripresenta. Il peggioramento si può evitare se si acquisisce consapevolezza e si stringe un buon rapporto con chi è competente della malattia, evitando di fare ‘dottor shopping’ tra specialisti di fama mondiale e chi propone cure alternative”.

Le cronicità non sono tutte uguali per intensità e conseguenze. Non nascondiamo il tentativo di etichettare troppo presto come malattie condizioni che non lo sono, il fenomeno della “mercificazione della malattia” (disease mongering) che può essere fomentato da interessi eterodiretti presenti nel mondo della salute. In Racconti da un mondo in cui tutti possono entrare, e dove tutti abitano già si approfondisce il cambio di paradigma verso la cronicità in oncologia: “da malattia mortale per antonomasia, il cancro è andato evolvendo in malattia cronica. Talvolta inguaribile, ma molto spesso guaribile nonostante sia una condizione che richiede frequenti controlli, cure e aggiustamenti di terapia. Un percorso accompagnato da tanta ansia, ma per fortuna oggi può assicurare talvolta anche lunghe sopravvivenze”. Il cambiamento di paradigma riguarda anche il livello cellulare, secondo Paul Davies, fisico britannico docente all’Arizona State University (2008): “la teoria che ha elaborato sostiene che il cancro non sia il prodotto di un danno, ma una risposta delle cellule a un ambiente dannoso. Per questo nell’approccio terapeutico bisogna cambiare strategia e pensiero. La sua conclusione è che la ricerca di una cura unica per il cancro sia non solo costosa ma anche inutile. Dato che il cancro è così radicato nella natura stessa della vita multicellulare, il modo migliore per gestirlo e controllarlo (non sterminarlo) è metterlo alla prova con condizioni fisiche ostili al suo stile di vita atavistico”.

Il capitolo riguarda anche il citato piano Nazionale della cronicità che individua solo dieci tra le patologie che invece dovrebbero essere incluse, tralasciando altre molto importanti, diffuse e altrettanto inabilitanti, come la malattia psichiatrica, quella oncologica, i disturbi dell’alimentazione, gli effetti di problemi neonatali, alcuni dei quali ancor oggi non completamente studiati. La cronicità fa fatica ad imporsi come condizione che richiede una nuova organizzazione delle risorse ed una nuova cultura medica, influenzata paradossalmente dal modello emergente di assistenza propinata dalle fiction e dalla letteratura romanzata nel campo come il dr House, Grey’s Anatomy, Un medico in famiglia e in Germania La clinica della Foresta Nera.

Nel libro si mette in evidenza anche come il limite tra acuto e cronico non è sempre netto (Cronico/acuto: due scenari contrapposti?) e ciò non solo dal punto di vista del curante, che spesso deve affrontare l’acuzie di un malato cronico per salvargli la vita minacciata in quel momento, ma anche dal punto di vista del malato che non accetta una malattia dalla quale non guarirà e con la quale dovrà convivere prestando molta attenzione alle prescrizioni mediche per mitigarne gli effetti e prolungarne la prognosi e probabilmente limitando le sue possibilità.  L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel suo rapporto Fact Sheet comunica che nel mondo muoiono 40 milioni di persone l’anno per patologie croniche, il 70% del totale dei decessi, “15 milioni delle persone decedute avevano un’età compresa tra i 15 e i 60 anni e l’80% di queste morti premature accadono in paesi in cui la popolazione ha un salario medio-basso; le malattie cardiovascolari sono le più frequenti (17,7 milioni l’anno), seguite dal cancro (8,8 milioni), dalle malattie respiratorie (3,9 milioni) e dal diabete (1,6 milioni di persone); queste quattro categorie sono responsabili dell’80% delle malattie dovute a malattie croniche; l’uso del tabacco, l’eccesso di alcool e una cattiva alimentazione aumentano il rischio di morire di malattie croniche; la diagnosi, lo screening e la terapia delle malattie croniche, insieme alle cure palliative, sono i punti chiave nella risposta alle malattie croniche.” Sempre l’OMS con Global Action Act ha anche proposto un piano operativo per la prevenzione ed il controllo delle malattie croniche per il periodo 2013-2020.

Purtroppo per il malato cronico, il riferimento sanitario principale rimane spesso il pronto soccorso perché il rapporto con questo tipo di malato per il medico è al di fuori dal paradigma classico: quello che risolve l’evento acuto. (Il peso della cronicità) “La malattia cronica invece è silente, spesso incurabile, con andamento progressivo incerto. Se è accompagnata dal dolore, questo è per lo più persistente, anche se a volte intermittente. La patologia è associata a un certo stile di vita e spesso i disturbi non sono collegati a dati biologici. Il medico prescrive un trattamento, ma controlla la malattia solo in modo indiretto: deve educare il paziente a condividere le sue conoscenze con lui. Il professionista che cura è chiamato a seguire la malattia anche nelle fasi silenti, a trattare attacchi acuti come emergenze; deve stare attento a scoprire complicazioni e fornire un supporto psicologico e sociale. E’ costretto ad accettare un cambiamento nel proprio ruolo di medico”. Il medico accusa il paziente di non seguire le sue istruzioni, il malato non si convince di essere tale. “Il punto cruciale in queste contrapposizioni è che sia il paziente, sia il medico devono accettare un ruolo nuovo: malato cronico o sano imperfetto, da una parte e medico accompagnatore competente dall’altra. La cronicità è un peso che sia il malato che il curante devono prendere su di sé.”

La cosa più difficile per un malato cronico è accettare di essere tale (La fatica di essere cronico). “Il peso maggiore della malattia cronica è costituito proprio dalla fatica di costruirsi una nuova identità. Le strategie possono essere le più diverse. Sono stati elaborati modelli per comprendere il rapporto del malato con la malattia basati sul concetto di ‘sede di controllo’ (locus of control)”. C’è il malato con sede di controllo “esterna” che dipenderà totalmente dai medici e dalle istituzioni, “interna, il soggetto ha l’impressione di essere il padrone di quello che gli accade”, atteggiamento utile per l’autogestione di situazioni come l’asma ma in altri casi può generare comportamenti imprudenti. L’atteggiamento più utile si situa in mezzo: “il paziente è capace di utilizzare le proprie competenze, ma è cosciente dei suoi limiti e della necessità di rivolgersi al medico in certe circostanze”. Ma l’accettazione della cronicità da parte del paziente è un processo faticoso che qualcuno ha assimilato al processo di lutto descritto in modo sistematico da Elisabeth Kuble-Ross. Il paziente deve formarsi una nuova identità e la medicina deve innanzitutto aiutarlo in questo. Sempre Gawande scrive: “Essere mortale significa anche sforzarsi di sopportare i limiti della nostra biologia… La scienza medica ci ha dotati di una notevole capacità di fare arretrare questi limiti, e il valore potenziale di questa capacità è stata una delle principali ragioni che mi hanno spinto a fare il dottore. Ma in ripetute occasioni sono stato testimone dei danni di cui noi medici ci rendiamo responsabili quando non riconosciamo che questa capacità è limitata e che sempre lo sarà”.

La cosa difficile per chi si prende cura di malati cronici è non cadere nell’esaurimento (burn out) “La cronicità significa sempre lo stesso problema, nessuna sfida diagnostica o intellettuale, nessun brivido da emergency room, nessun quesito per l’intelletto brillante di un Dr House, spesso nessuna riconoscenza da parte di un paziente salvato e dei suoi familiari” si legge nel capitolo La fatica di curare i cronici. Il romanzo La casa di Dio di Samuel Shem, pseudonimo dello psichiatra americano Stephen Bergman, può aiutare a capire la fatica di curare i malati cronici che i medici chiamano gli “smammali” (gomer) nel senso che devono essere smammati o scaricati “perché la medicina ospedaliera acuta non può o non vuole occuparsene”. Per difendersi dal burn out i medici del La casa di Dio elaborano un catalogo di regole come “’In caso di arresto, prendere il proprio polso’. Il che significa non entrare in panico”. Oppure: “Il segreto è la decatessi. Ridurre l’investimento libidico in ciò che si sta facendo”. Una depersonalizzazione, “la sensazione persistente e ricorrente di essere distaccati da sé, dal proprio corpo e dalla propria mente”. A questo esaurimento contribuisce “anche il contesto generale di una società che ha una considerazione più alta dell’estetista che dell’infermiere; che tuttora nega la malattia, il dolore e la morte; che inizia a vedere negli operatori sanitari non tanto degli ‘alleati’, quanto dei nemici da combattere, perché spesso hanno il compito ingrato di rivelare la perdita della salute, che fa parte della vita di quasi tutti, producendo una trasformazione irreversibile”.

In passato però vi erano degli ospedali specializzati, i sanatori, dove si rimaneva anche molti anni, e quasi sempre senza successo (Come curare i malati e, soprattutto, dove?) ma con l’avvento degli antibiotici e la tubercolosi poteva essere debellata con farmaci specifici e senza ricovero quelle strutture sono state abbandonate o riconvertite. Oggi negli ospedali si soggiorna pochissimo, il tempo indispensabile e talora anche meno, preferibilmente per un intervento chirurgico perché oltre che necessario è anche remunerativo (il ricovero preferito delle cliniche private). Oggi per le malattie croniche luoghi così non esistono più anche se forse i malati cronici vorrebbero stare per un tempo lungo in un luogo riposante, ma questo non è più possibile.

Due capitoli del libro sono dedicati all’asma, prototipo della malattia cronica. E’ frequente la negazione della malattia asmatica (Di asma si muore ma si può anche convivere) dove si descrive il rischio a cui si espongono quei pazienti che ignorano le conseguenze anche gravi di questa malattia o attraverso la rimozione del problema da parte loro o dei genitori (nei bambini). La mortalità è “del 2.0-2.4 ogni 100.000 abitanti nel Regno Unito, cioè 1250 persone all’anno. In Germania 1,4 ogni 100.000 abitanti per le donne 1.0 per gli uomini, in totale 1050 persone all’anno; troppe per una morte spesso evitabile”.  In realtà ci sono tanti tipi di asma: “c’è un fenotipo di asma quasi fatale, molto temuto perché riacutizza e peggiora in forma grave e molto veloce, in poche ore e talvolta soltanto in pochi minuti, che arriva all’intubazione e/o al ricovero in terapia intensiva”. Interessante poi la tesi di “Erika von Mutius di Monaco, secondo la quale la prevalenza dell’asma nella parte est del paese è minore, malgrado un maggior inquinamento dell’aria e uno stile di vita decisamente più povero”: è la “ipotesi igiene”: “sporco è sano, o sterile è dannoso” con l’esposizione a vari microbi in varie età di sviluppo del bambino e del suo sistema immunitario che possa spiegare come certi microbi contenuti nelle polveri domestica proteggano dall’atopia”. Ma non è così semplice spiegarne le cause e questo condiziona la mancata aderenza dei pazienti alle terapie, dal 30 all’80% dei malati non segue le terapie. “Mentre nel campo medico, molto lentamente si manifesta l’orientamento a un approccio empatico, paritario e negoziante, il paziente sembra orientato verso un modello appartenente ad un recente passato, quando il medico onnipotente risolveva tutti i problemi”. Eppure l’aderenza alla terapia è fondamentale per ridurre la mortalità, ma la cultura del lungo tempo non riesce a penetrare nella mentalità del malato (ed anche del medico talora).

L’autrice si chiede pure se l’educazione del paziente possa incidere sul modo di affrontare la cronicità e pertanto influire sulla sua gestione personale e generale (L’educazione come terapia: storia di un fallimento?). “Per più di due anni abbiamo svolto dei corsi di ‘scuola dell’asma’ per bambini e per adulti. Erano corsi di quattro sedute di due ore circa, dove si parlava dell’asma e si facevano piccoli esercizi di ginnastica respiratoria, ci si esercitava a fare i ‘puffetti’; un pomeriggio era dedicato alla gestione dell’emergenza… Dopo un po’ la scuola è terminata perché non c’erano risorse: nessuno dei docenti era pagato e la situazione lavorativa dei medici era cambiata”. Oggi ci sono e-book e piccoli filmati ma l’educazione del paziente è difficile perché “la persona è convinta di non soffrire di asma”, “la persona sa di soffrire di asma ma si vergogna”, “la persona sa di avere l’asma, ma è convinta di non soffrirne per sempre”, “la persona vuole essere il tipico paziente di una volta: ha nostalgia del medico paternalista autoritario”, “La persona ha un approccio irrazionale verso la propria malattia”. Neppure l’adozione di linee-guida sembra efficace: lo studio Philadelphia Story dimostra che i medici di famiglia rispettano poco le linee guida, forse perché troppo complesse. “Comunque per fortuna nel periodo dal 1990 fino al 2015 le morti per l’asma sono diminuite del 26.2% ma la prevalenza è aumentata nello stesso periodo del 12.6%… non sappiamo bene a che cosa attribuire il calo della mortalità: senz’altro non a una diffusione di programmi educativi a tappeto nel mondo. Il merito è piuttosto di farmaci nuovi e più efficaci con device più semplici; oppure possiamo ipotizzare che le cure sono più accessibili per una popolazione mondiale più vasta dopo una diagnosi più corretta”.

Se la medicina vuole essere davvero a servizio della cronicità deve cambiare paradigma e organizzazione (Le cure primarie, la medicina incrementale e la medicina di iniziativa). “La legge dell’assistenza inversa”: “la disponibilità dell’assistenza sanitaria è inversamente proporzionale al bisogno della popolazione servita…  Partendo da questa intuizione nasce un modello chiamato “Anticipatory Health Care” che la dottoressa inglese Julia Hart mise in pratica negli anni ’70: “Il protagonista di questo modello è la medicina di famiglia, dove il tempo con il medico è garantito, ci sono infermiere formate che svolgono alcuni ruoli, vengono seguite con esplicite sollecitazioni i defaulters, vale a dire i pazienti che non si recano ai controlli”. Il risultato fu una riduzione della mortalità prematura del 28% nelle aree in cui questo modello fu applicato. “In Spagna hanno dimostrato con un intervento di sanità pubblica che costruendo più ambulatori, allungando gli orari e aumentando le visite a domicilio gratuite si assiste dopo dieci anni a una diminuzione della mortalità”. E’ la nuova medicina che “Atul Gawande chiama ‘incrementale’: visitare, valutare, consigliare e tranquillizzare; eventualmente prescrivere”. Gawande paragona il nostro corpo ai ponti degli Stati Uniti (ma oggi potremmo estenderlo anche all’Italia no?).  Dopo il crollo del Silver Bridge nel 1967 l’inventario fatto dal governo federale scoprì che su 600000 ponti censiti la metà era a rischio crollo. Scoprì anche che investendo in manutenzione si poteva allungare la vita di decenni a un costo inferiore della loro ricostruzione. Ma le ricostruzioni, si sa, convengono ai politici ma non alle persone comuni: “ogni anno uno su mille crolla e nel quattro per cento degli incidenti muoiono delle persone, ma visto che non ci sono grandi proteste, il rischio viene considerato accettabile”.

L’autrice è particolarmente sensibile anche alla protezione del personale sanitario e, a parte averlo citato nel capitolo La fatica di curare i cronici, riprende più approfonditamente il tema in Cronico incontra cronico: quando i curanti sono un pericolo introduce con numeri preoccupanti il rischio di burn out e di dipendenza per i medici. Storie di esaurimento, di dipendenza da oppioidi, suicidio per condizioni di lavoro stressanti, che si tengono poco in considerazione anche nella prospettiva della sicurezza del paziente.

I malati cronici si organizzano grazie al web 2.0 (Cronici alla ricerca di altri cronici: le opportunità del web 2.0). Gruppi di autoaiuto che scontano a volte il rischio delle incertezze delle fonti, gruppi che permettono di risolvere quesiti diagnostici difficili come nel caso delle malattie rare. Gruppi che condividono lo stesso percorso terapeutico come quello fondato da una tecnica di radiologia colpita da un linfoma di Hodgkin e adottato dall’Ospedale San Martino di Genova, attraverso il cui sito è possibile comunicare con i sanitari e con gli altri pazienti che condividono lo stesso percorso. Si discute poi dell’empowerment del paziente che rifiuta la passata passività e vuole interagire nelle decisioni che lo riguardano ed il ruolo della medicina narrativa. A quest’ultima anche l’Istituto Superiore di Sanità ha dedicato una Conferenza di Consenso pubblicando le Linee di consenso nel 2015: “La medicina narrativa si integra con l’evidence based medicine e, tenendo conto della pluralità delle prospettive, rende le decisioni clinico-assistenziali più complete, personalizzate, efficaci e appropriate.” L’autrice si chiede “come possa reggere ancora il ricorso al consulto medico visto che anche il conforto emotivo può essere cercato on line.

In epoca di autodeterminazione il ruolo del medico è diventato più difficile ma forse anche più indispensabile e delicato soprattutto per sostenere le decisioni stesse del paziente nell’affrontare il dolore, la consapevolezza e le cure stesse (La cronicità che declina verso la fine della vita). In questo capitolo si raccontano le storie di depersonalizzazione dei malati di Alzheimer, le scelte difficili dei malati avanzati di SLA e quelle di novantenni cardiopatici messi di fronte alla scelta se subire o meno un’operazione che può salvare la vita o porvi termine (Margherita Hack).

Un ulteriore cambiamento che si auspica nel libro riguarda il rapporto temporale tra cure palliative e cronicità (Se la cronicità sposa le cure palliative): un rapporto temporale non sequenziale ma interagente. Certo rimane difficile comprendere quando l’insufficienza dell’organo è “end stage”. Maneggiare bene in questi momenti le risorse mediche può evitare di trascinare malati e parenti in lunghi anni di tragedia emotiva. E questo può realizzarsi solo con un approccio multidisciplinare che coinvolga il malato (quando possibile) e la famiglia.

La cronicità ha la sua fine, come vivere questa fine trova risposte molteplici che dipendono molto da come si è vissuta la prima (Luci della ribalta o dietro il sipario?), ma di sicuro vi sono due modalità, forse agli estremi: “ponendosi su un ideale palcoscenico oppure ritirandosi dal mondo e nascondendosi dietro le quinte”. Da Love story di Erch Sagal del 1970 al libro di Fritz Stirn Il cavaliere, la morte, il diavolo del 1977, a Grazia e grinta di di Ken Wilber tradotto in italiano nel 1995 al recente, ormai in era di internet, The last lecture di Randy Pausch professore di informatica a Pittsburg che racconta La vita spiegata da un uomo che muore (sottotitolo della edizione italiana 2008), sono solo alcuni esempi che il cinema e la letteratura ci hanno offerto.

Quando si cercava ‘last words before death’ nel 2008 su youtube uscivano 1370 video. Allora sembrava una enormità. Dieci anni dopo, nel 2018, alla voce inglese escono 5.100.000 video, in italiano più di 7 mila. In tedesco 15.000, in francese 11.000 e non so quanti in cinese, arabo o indu. Ci sono messaggi di tutti i tipi. Ne evidenzio uno apparso in Italia: il video testimonial di Marina Ripa di Meana, che ha istruito tutti quelli che volessero prestarle attenzione sulla realtà della sedazione profonda.” Diversamente c’è chi sceglie la discrezione, condividendo solo con pochi intimi. Anche qui arriva la letteratura con lo scrittore ungherese Peter Nadas col suo La propria morte (Der eigene Tod, 2002): “il testo accompagnato dalle fotografie scattate dall’autore, sempre lo stesso albero, un pero selvatico, in più di cento immagini”, accanto a ciascuna delle quali annota l’evento clinico e la sua reazione. Altro esempio di modalità discreta è quella di Sergio Marchionne e il Kodokushi ossia la morte solitaria in Giappone, quasi una “rievocazione attualizzata” dell’usanza giapponese raccontata nel libro e film La ballata di Nayarama.

Rinnenburger conclude definendosi “cronicamente” fiduciosa: “Aspetto un vento di creativa gioventù, che dia spazio a chi la vita la conosce segnata dalla cronicità, e tuttavia si aspetta di stare   ‘diversamente bene’ al mondo. Con una salute cronicamente imperfetta: imperfetta come la vita”. Lo aspetta perché non vede nei decisori politici la consapevolezza del cambiamento in atto. Può darsi che lo scenario futuro sia quello descritto da Alec Ross ne Il nostro futuro. Come affrontare il mondo nei prossimi 20 anni dove i robot aiuteranno le persone anziane. Oppure quello delle voci intelligenti come Alexa raccontato nel film Lei di Spike Jonze (2013). Ma in attesa di tutto ciò queste sono le “ingenue fantasie” dell’autrice: “Comincerei col ristrutturare gli ospedali, non solo togliendo i posti letto e il personale, ma li trasformerei mantenendo sempre l’eccellenza per le grandi acuzie e aprendo contemporaneamente le lungodegenze funzionanti, favorendo progetti di ‘assisted living’, strutture dove si vive in autonomia, con la possibilità di aiuto infermieristico e medico. Farei entrare anche i robot umanoidi per aiutare ad alzare le persone, girarle, accudirle, risparmiando le schiene degli infermieri. Rivoluzionerei la medicina di base, facendone il perno centrale del cambiamento: farei dei team di medicina di famiglia con medico, infermiere, fisioterapisti e anche forse psicologi, piccoli centri nei quartieri, accessibili a tutti. Promuoverei strutture belle dal punto di vista architettonico, con l’aiuto di architetti visionari: residenze solari, con parcheggi e ascensori funzionanti, con opere d’arte dentro i reparti e nelle sale d’attesa. Farei delle scuole e degli ospedali il biglietto da visita di una città. Promuoverei il paradigma delle cronicità nelle scuole, in arte, letteratura, in film e musica.

Chi sia giunto fino alla fine di questa recensione non pensi di aver gustato tutta la ricchezza di un libro, ricco peraltro di numerosi rinvii a documenti e citazioni. Un libro la cui lettura è destinata (e necessaria) a un pubblico transdisciplinare, quale i professionisti della salute, i decisori politici e che sarebbe bello giungesse ai malati attivi e loro familiari.

Maurizio Portaluri

26 gennaio 2020