Quotidiano di Puglia ha pubblicato il 26 marzo scorso l’articolo di Vito Totire, che proponiamo di seguito, scritto dopo il grave incidente avvenuto in un cantiere navale di Brindisi a danno di un ragazzo di soli 21 anni che svolgeva attività in formazione. Il giovane brindisino sembrerebbe non essere in pericolo di vita ma le note diramate dai sanitari dicono che è stato sottoposto ad un impegnativo intervento pelvico. Il giorno dopo a Termoli un operaio di 56 anni di San Severo è stato folgorato da una scarica elettrica e ha perso conoscenza ma non la vita, la stessa sorte è toccata ieri ad un ragazzo di 28 anni che lavorava in un impianto fotovoltaico a San Donato leccese dove lui, invece, ha perso la vita.
Nelle ultime settimane in Italia si sono verificati diversi infortuni gravi ai danni di ragazzi in formazione-lavoro. I primi due (Udine e Roma) sono stati mortali; ora si apprende di un evento, meno grave, a Brindisi, in un cantiere navale. I due primi infortuni, quelli mortali, hanno determinato una energica reazione di protesta dei giovani che ne hanno denunciato la assurdità; una reazione che ha ricordato le vivaci proteste avvenute in tutta Italia per l’omicidio sul lavoro di Luana D’Orazio a Prato nel 2021; un omicidio citato da Draghi in parlamento ma senza la successiva capacità del governo di porre rimedio e misure di prevenzione alle stragi sul lavoro che hanno continuato, dopo Luana, morta a 22 anni, ad accadere. Le istituzioni hanno reagito alle manifestazioni di indignazione degli studenti per i due coetanei morti addirittura in termini di repressione poliziesca senza rendersi conto del fatto (o proprio per questo?) che le proteste sono la punta di un iceberg che si va scoperchiando e che si inserisce in quel movimento che i sociologi hanno definito “quitting” vale a dire la spinta, ormai molto forte e manifestatasi a livello mondiale, a rifiutare condizioni di lavoro di sfruttamento e di alienazione psicologica.
Certo i padroni e il “mercato” corrono ai ripari facendo del disagio un terreno di ulteriore profitto: a Bologna è emersa un’offerta (privata, quindi a pagamento) di supporto a condizioni di burn-out, fenomeno, a sua volta anche esso diffusosi come sequela del cosiddetto long-covid19 o post-covid19 (non nel senso clinico individuale ma nel senso psicosociale del termine). L’interpretazione di queste tendenze nella condotta della “forza lavoro” correla le reazioni psicologiche alla strage da covid-19 e alla pulsione, spontanea e diffusissima, a porsi – di fronte alla precarietà della vita – un interrogativo sempre più pressante: “perché devo accettare un lavoro di merda?”. In effetti durante e dopo la epidemia l’atteggiamento dei lavoratori rispetto a certi connotati schiavistici del lavoro in numerosi comparti produttivi (servizi, riders, logistica, agricoltura ed altri settori ) ha visto abbassarsi i livelli di tolleranza e di rassegnata obbedienza: la morte vista da vicino nel corso della epidemia, le condizioni di isolamento, costrittività (lavorare 8 ore, senza pausa, con la mascherina!), avversatività , mobbing, subiti dai lavoratori stanno spostando le priorità dalla mera sussistenza materiale alla ricerca di un lavoro certo ma dignitoso. Persino un rampollo della casa reale dei Windsor (andato comunque via di casa!) in qualità di consulente del lavoro ha lanciato un appello: rifiutare il lavoro alienante. Se è vero che non sarà un “nobile” inglese, emulando Robin Hood, a guidare la riscossa dei lavoratori sfruttati, cionondimeno, la situazione pare davvero in movimento e positivamente.
Arrancando dietro gli eventi le istituzioni hanno scoperto l’esigenza di garantire una “logistica etica” avendo scoperto dopo decenni di rimozioni che lo schiavismo è solidamente attecchito in Italia; un po’ in ritardo visto che la integrità morale dei lavoratori, sulla carta, è garantita persino dal codice civile degli anni quaranta del secolo scorso, ma spesso i governanti sono affetti da perniciose amnesie.
Anzitutto un augurio di pronta guarigione al giovane brindisino infortunato, auguri ai suoi compagni e ai suoi familiari. Siamo consapevoli di un fatto: quando si è stati vittima della violazione del “contratto psicologico“ (entrare in un luogo di lavoro per apprendere una professione ed uscirne infortunato!) niente torna esattamente come prima.
Dice Luce Irigaray: un corpo che ha già sofferto è un corpo che chiede rivincite: che la rivincita, collettiva, per miliardi di persone nel mondo, sia un lavoro a dimensione umana e non un lavoro funzione del profitto, di pochi, a tutti i costi.
Vito Totire, medico del lavoro/psichiatra, Rete europea per l’ecologia sociale
29 marzo 2022