Di Francesco Calamo-Specchia*
Vorrei proporre – pur con inevitabili semplificazioni – alcune riflessioni generali sulla scienza, sulle quali mi sono spesso interrogato anche in ambito professionale.
Oggi la scienza tende a porsi come approccio oggettivo, non più solo come logica interna, ma anche come proposta complessiva per la società, come criterio guida e come visione del mondo. La scientificità di un assioma congela ogni dibattito e intimidisce ogni dissenso, equiparando ogni tentativo di riflessione a quell’antiscientismo fondamentalista e insensato che personalmente detesto.
Ma se è consentito ragionare sulla scienza, come a Galilei non fu consentito fare sulla religione; se cioè la scienza oggi non ha preso il posto del Sant’Uffizio che negava libertà di parola a chi metteva in dubbio la verità oggettiva delle Sacre Scritture, allora occorre porsi alcune domande, cominciando con la più inaudita: serve davvero, la scienza?
La mia risposta è: naturalmente sì, moltissimo; ma non in tutti i casi, e mai senza qualche costo. Anche il beneficio dei contributi scientifici più consolidati ha comportato e comporta costi, talvolta finanziari, spesso ecologici, quasi sempre di ecologia della mente, e immancabilmente antropologici: usare la scrittura invece della sola oralità, la plastica e l’elettricità, la stampa e l’automobile, fa dell’uomo un essere diverso e del mondo un luogo diverso.
La domanda da farsi di fronte ad ogni innovazione scientifica è dunque non solo se essa serva, ma anche se qualcosa andrà perso in cambio di questa utilità, e se questa perdita sia accettabile, o magari evitabile o sanabile. Occorre a parer mio non oscurare queste riflessioni, e non accordare alla scienza l’ipse dixit che la filosofia negò ad Aristotele.
Ma cosa mai ci si potrà perdere, e cosa ci può essere di più utile di una facilitazione scientifica alla nostra vita? Fornisco solo pochi – provocatori – spunti: si può perdere ad esempio la libertà di non usare facilitazioni talmente allettanti da divenire indispensabili, e da indurre un effetto di svalutazione della fatica, della lentezza, della profondità; che peraltro – sublime paradosso – nel metodo scientifico sono fondamentali…
Con l’esternalizzazione e il potenziamento delle doti umane se ne può perdere l’umanità, delegando la memoria e l’intelligenza fuori da sé – e ora perfino la decisione, nella sconvolgente impresa dell’intelligenza artificiale. Con droni e riconoscimenti facciali si può perdere il libero arbitrio, la possibilità di delinquere e sbagliare, di superare la corsia e di passare col rosso, di assumersi la colpa e la condanna, di pentirsi o di ergersi come Capaneo contro ogni legge. Ci si avvicina alla raggelante distopia di un mondo di uguali mansueti – ugualmente buoni, ugualmente senza vita – del bellissimo “The giver – Il mondo di Jonas” (2014).
Ma la scienza il libero arbitrio lo preserva; per sé stessa. Nessuna telecamera a sorvegliarla, nessuna frenata automatica a bloccarla. Essa tende pur meritoriamente a controllare gli spazi di libertà collettiva, ma ritiene giusto per sé fare tutto quel che può fare, in nome di una sorta di supremazia indiscutibile. Ci impone una sua visione etica, ma si vuole sciolta dall’etica.
Parrebbe invece necessario sottoporla – come tutti i gesti umani – a valutazioni di male e bene, accettabile e proibito; e necessario chiarire i responsabili di tali valutazioni, che di sicuro non possono essere solo gli scienziati. Ciò che è cruciale è comunque promuovere la consapevolezza che ogni gesto umano è una scelta e non una ineluttabilità, anche il progresso scientifico – o perlomeno il suo orientamento, la sua velocità, la sua estensione.
Oggi la scienza appare però tanto più tetragona a limiti di alcun genere quanto più inscritta in profondità nella metafora e nella prassi mercatista del nostro mondo, in cui – dallo sport alla letteratura, dalla scoperta scientifica allo spettacolo – tutto ha un suo posto solo se è trasformabile in prodotto. Scienza è il remoto nobile nome che ricopre oggi la natura fortemente commerciale-utilitarista del sistema tecnologico che la sottende. La scienza pura tende ad essere soffocata; come nei moduli per i finanziamenti in università, che richiedono di indicare i prodotti concreti della ricerca (ossia vendibili, brevettabili), penalizzando ogni ricerca teorica e di base; privilegiando il problem solving alla sapienza.
La scienza è indubbiamente utile; ma la sua natura oggi ipertecnologica la rende vocata a produrre quantità più che qualità, ed essa pare dunque migliorare la nostra vita prevalentemente da un punto di vista performativo – in sanità magari ristabilendo ma non necessariamente guarendo – coerentemente ad un mondo che ha ovunque espunto la non performatività dai valori per i quali vale la pena essere al mondo.
Utilizzare la scienza/tecnologia come criterio definitivo delle scelte significa dunque escludere il non performativo dal giudizio umano, sfavorire il pensare critico a vantaggio di un fare che trova il suo fine e il suo significato solo nel generare altro fare.
Il trionfo politico e culturale dell’utile – e dell’utile deciso individualmente, da consumatori – travolge oggi l’antica esigenza del giusto, identificandolo con sé stesso; se vorremo figli alti e biondi e con dodici dita per inserire meglio i dati, e la genetica ce li potrà dare, ebbene li avremo, perché no?
La fine del limite – ovunque e nella scienza – rende superflua la domanda di etica e di senso, nell’assenza della necessità di criteri di scelta oltre l’utilità. Alla residua interrogazione sul significato complessivo dell’avventura umana la scienza/tecnologia risponde che non ce n’è altro oltre la pura funzione di sopravvivenza e produzione e riproduzione, declinata nei modi più concreti. E forma una sconsolante generazione di nuovi sordi (ma senso in che senso? mi chiedevano i miei ultimi studenti…).
La scienza/tecnologia tende a ridurre ogni significato a sé stessa, nell’attenzione all’immanente e nella espulsione di ogni non misurabile, nella certezza di ricondurre tutto a spiegazioni razionali che prima o poi arriveranno; ma che se pure riuscissero a spiegare tutto com’è, temo non riusciranno mai – per definizione – a spiegare cos’è, e perché è; domande che delle interrogazioni umane sono di gran lunga le meno “utili”, ma le più potenti.
*già Professore di Igiene all’Università Cattolica del Sacro Cuore
2 aprile 2022