Morte “decretata” a Venezia, avvenuta a Padova; la nuda cronaca riferisce del “suicidio” di un lavoratore dipendente della ditta Metro di Mestre licenziato per un asserito errore nella gestione di pagamenti; sono passati decenni da quando si indagò, grazie all’approfondito lavoro del pm Felice Casson, sulle morti per tumore tra gli operai del petrolchimico; quella indagine fu propiziata dalla attività di indagine dell’indimenticabile Gabriele Bortolozzo operaio del petrolchimico il cui lavoro ci ricorda la importanza della conoscenza operaia e del gruppo operaio omogeneo; il processo focalizzò alcune della patologie professionali più conosciute e studiate nella storia della medicina del lavoro; invece i fattori di rischio non chimico-fisici ma legati al distress ed alla costrittività della organizzazione lavorativa (distress, mobbing), pur presenti da sempre, hanno maggiormente attirato l’attenzione solo dopo la stagione dei processi per tumori professionali e a cominciare dagli anni 1999-2000 hanno evidenziato sempre maggiore peso ed incidenza; la precarietà dei contratti di lavoro e la “mutilazione” dello statuto dei lavoratori, rendendo più facili i licenziamenti hanno aperto una voragine in cui – come era prevedibile – sono caduti migliaia di lavoratori e di lavoratrici ;come purtroppo conferma questo ennesimo luttuoso evento di Meste i fattori di rischio psicologici e psicosociali vanno tenuti in debita considerazione; in questi decenni di precarietà abbiamo visto lavoratori cassintegrati, disoccupati o comunque ricattabili per la precarietà del posto di lavoro e del contratto, scompensarci psicologicamente, ammalarsi, giungere anche al suicidio; la tragica questione non è “nuova”; i lavoratori hanno conosciuto momenti molto bui nella loro storia in tutto il mondo e in tutti i momenti di “crisi” che hanno sconvolto il benessere mentale con “ondate” di depressioni reattive e di suicidi: dai contadini indiani ridotti alla fame dal “mercato” capitalistico ai lavoratori di Telecom France demansionati e licenziati alla fine del secolo scorso; abbiamo visto anche lavoratori (soprattutto se con famiglia a carico) scompensarsi anche e persino per “voci” di crisi poi rivelatesi infondate; tanto che nel primo decennio del 2000 furono pubblicati studi, indicazioni, linee-guida su come “comunicare la crisi”; questi studi raccomandavano cautele, trasparenza ed equità, nella consapevolezza degli effetti psicologici negativi che certi eventi possono causare; in quegli anni riuscimmo a dare vita ad una importante associazione di autoaiuto tra i lavoratori cassintegrati della fonderia Sabiem di Bologna; iniziativa importante che portammo in un seminario partecipatissimo alla Università di Venezia su invito del professor Pietro Basso; quella della Sabiem fu una esperienza in cui si sperimentò la capacità del gruppo operaio omogeneo di autosostenersi nel pieno della crisi difendendosi dal rischio di ripiegare sulla “depressione”, sull’uso di psicofarmaci e sul tabagismo; ma si trattò di esperienza collettiva non ripercorribile nel caso del licenziamento ad personam come quello di Mestre; oltretutto nelle vicende “individuali” occorre adottare le massime cautele nelle scelte e nelle modalità di gestire i procedimento e nelle comunicazioni anche tenendo conto della valutazione del distress correlata alle differenze di genere, di età e di paese di provenienza (nel senso della cultura di appartenenza).
L’evento di Mestre è molto grave e va seguito con grande attenzione.
Auspichiamo che la magistratura indaghi d’ufficio prima di eventuali querele di parte per valutare il nesso tra il licenziamento (in quanto “provvedimento” sproporzionato e iniquo) e l’evento mortale; alcuni nostri interlocutori hanno già messo le mani avanti dichiarando che se lo slogan della RETE NAZIONALE LAVORO SICURO e’ “arrivare il giorno prima” dell’evento, ora è ormai troppo tardi; tuttavia se troppo tardi per il lavoratore deceduto non è troppo tardi per cercare di prevenire eventi analoghi che con questo tipo di organizzazione del lavoro che subiamo nelle economie “liberiste” possono accadere da un momento all’altro; “inventare” una nuova fattispecie di reato penale nel senso del “licenziamento per futili motivi”? non è questo il problema all’ordine del giorno: il problema è che i “padroni” devono rendersi conto, anche nell’ambito della “valutazione del rischio” , degli effetti possibili non solo dei fattori chimici o fisici ma anche dei fattori di rischio psicologico e devono comprendere quali sono gli effetti possibili di un tentativo di licenziamento con le “motivazioni” che in questa drammatica vicenda gli organi di informazione hanno riferito; le cronache peraltro riferiscono di una particolare dedizione al lavoro da parte di P.M. (queste le iniziali del lavoratore); si tratta di situazioni “pericolose” in cui l’aver fornito energie anche extracontrattuali e avere investito emotivamente nella propria prestazione lavorativa rende particolarmente dolorosa la frustrazione causata da un provvedimento di licenziamento; una certa etica del lavoro – di per sé non certo negativa, se non ricambiata rischia di ritorcersi contro il lavoratore “onesto” e la “cultura veneta” tende ad una etica del lavoro che non può essere disconosciuta senza contraccolpi; ma, come dire, i “padroni” mancano di “psicologia”?
Peraltro il tentativo di licenziamento anche se respinto dal giudice rappresenta sempre una ferita difficile da rimarginare sia per il lavoratore che per la organizzazione in cui egli è inserito; non abbiamo dati esaustivi ma non ci pare che i “rientri” in caso di annullamento del licenziamento da parte dei giudici, siano particolarmente “felici”; certo l’evento mortale verificatosi aprirà discussioni , ancora più difficili se saranno portate nell’ambito giudiziario e medico-legale; possiamo immaginare, soprattutto se ci saranno parti e controparti, le “discussioni” sulle cause del suicidio ; di recente le ferrovie dello stato hanno sostenuto di non avere responsabilità sulla morte di un lavoratore , malato di tumore riconosciuto come professionale, che si è suicidato; il loro “periti” hanno sostenuto che il suicidio attiene alle caratteristiche di personalità del singolo e non aveva , in quel caso, a che fare con la pregressa diagnosi di tumore; il tribunale, giustamente, non ha condiviso e decretato il risarcimento.
Ora noi non vogliamo avviare indagini o vertenze; non ne avremmo titolo; tuttavia sollecitiamo le parti (familiari, sindacato e la collega di lavoro “zittita” dal parroco!) ad una riflessione affinchè si possa giungere al riconoscimento del luttuoso evento come correlato a causa lavorativa (QUANTOMENO CONCAUSATO) e, a nostro avviso, anche alla omissione di misure di prevenzione. Circa il parroco, senza polemiche, viene in mente la lettera di “raccomandazioni” inserita spesso nel fascicolo personale dell’operaio da assumere presso il petrolchimico; altri tempi? C’è un problema storico: la Chiesa, da che parte sta?
Non tutti i licenziati per “ingiusto motivo” si suicidano; esattamente come è vero che non tutti gli esposti ad amianto si ammalano di mesotelioma; ma è altrettanto vero che i “padroni” devono smetterla di usare la minaccia di licenziamento come il boia usa la mannaia.
Dobbiamo agire nel ricordo del lavoratore deceduto e nella speranza di prevenire altri eventi analoghi nel futuro
Vito Totire, medico del lavoro/psichiatra, RETE NAZIONALE LAVORO SICURO
Bologna, 17 agosto 2024