07 GIUGNO 2013
|Non conosco il processo per la morte di Stefano Cucchi, dunque non so se la sentenza che ha assolto alcuni degli imputati, quelli in divisa, sia giusta o meno.
Conseguentemente, mi guardo bene dall’avventurarmi in giudizi sul merito del giudizio.
Commentare le sentenze e i provvedimenti giudiziari in genere è certamente espressione del fondamentale diritto costituzionale di manifestazione del proprio pensiero.
Tuttavia, se, quando si esercita quel diritto in merito alle “cose della giustizia”, più precisamente in ordine ad un processo penale, si possiede anche un minimo di conoscenza diretta dei fatti e degli atti processuali, nonché delle regole che quei fatti e quegli atti disciplinano, si rende un buon servigio anzitutto a quel diritto.
Mi sono tenuto sempre a distanza di sicurezza dal nutrito partito dei “relativisti etici” in ambito processual – penalistico.
Ho sempre ripudiato discretamente l’idea che altro sia, o peggio altro debba essere, la verità sostanziale altro la “verità processuale”.
Ho sempre pensato che il logico, fisiologico e doveroso obiettivo del processo penale deve essere l’accertamento della verità dei fatti (i fatti non tollerano scissioni della loro essenza, tra versioni sostanziali e versioni “processuali”; se no non sono più fatti) e l’affermazione delle responsabilità di tutti gli autori di quei fatti, con la conseguente applicazione delle relative sanzioni.
Il “fare giustizia”, insomma.
Ma quest’ultima finalità, in un processo penale, passa per l’esame delle posizioni di singoli soggetti, gli imputati, cui vengono ascritti determinati fatti di reato; e quel vaglio è regolamentato da norme di procedura ben precise, specie con riferimento al capitolo cruciale delle prove della responsabilità dei medesimi singoli imputati.
Non si può “fare giustizia” contro quelle regole; non si può condannare se quelle prove non superano l’esame fondamentale: quello per cui chi giudica, sulla base di quegli elementi probatori, deve aver raggiunto la certezza della colpevolezza di chi è giudicato oltre ogni ragionevole dubbio.
Questo accade nel nostro sistema, come in ogni altro Stato di diritto, come in ogni altro sistema civile.
Ma questo, ovviamente, non toglie che quelle regole di giudizio (a tacere della loro interpretazione pratica, che spetta sempre al giudice), molte volte, si possano e si debbano, liberamente e consapevolmente, criticare, perché, non poche volte, esse sono più amiche, per non dire più foriere, dell’impunità che della giustizia.
E l’affermazione del “diritto all’impunità” è altrettanto letale per uno Stato di diritto, per una società civile, di quanto lo possa essere la negazione dei diritti fondamentali, veri.
La storia di Stefano Cucchi, però, a parte le questioni relative alle specifiche responsabilità penali degli individui, qualche elemento generale, di riflessione civile, sufficientemente chiaro e certo lo fornisce.
E sono elementi assai poco gratificanti per quello stesso Stato di diritto e, dunque, ancor meno rassicuranti per i cittadini e le cittadine di quello Stato; per tutti noi, cioè.
E’ una storia già vista. Troppe volte.
Una persona finisce “nelle mani dello Stato”.
Quelle dello Stato dovrebbero essere certamente mani forti, ma, ancor più, dovrebbero essere mani giuste, mani “legali” per definizione.
Chi finisce nelle mani dello Stato ed è responsabile di un delitto dovrebbe esser consapevole che va incontro ad un giusto e legale castigo, irrogato alla fine di un processo regolare.
Chi, invece, vi capita non avendo commesso alcun crimine dovrebbe nutrire la ragionevole certezza che il processo, la procedura, serviranno a liberarlo da ogni restrizione iniqua, da ogni accusa ingiusta, da ogni ombra infondata.
In ogni caso, nessuno, che sia colpevole o innocente, dovrebbe serbare neanche remotamente il timore che, dallo Stato e da chi lo personifica, gli sarà fisicamente torto un capello fuori o, peggio, contro le regole dello Stato.
Non è sempre così.
Continua a non esser così in molte, troppe situazioni.
Molte, troppe volte lo Stato, questo Stato, agisce nei confronti di chi ha in proprio possesso, di chi “non ha più il suo corpo”, con la faccia ed i comportamenti di autentici, volgari criminali, singoli o associati.
Una, dieci, cento divise di un apparato di sicurezza interna, di polizia in senso lato, che si presentano agli occhi e al corpo di uno o più cittadini di quello stesso Stato di cui fanno parte quegli apparati e quelle divise come fossero, invece, appartenenti ad un paese nemico.
Come fossero truppe di occupazione.
Che sia una piazza dove si svolge un corteo politico o sindacale; o una caserma o un carcere dove sono sequestrate e torturate decine di ragazzi e di ragazze colpevoli solo di aver partecipato ad una manifestazione contro un vertice internazionale; o una camera di sicurezza di un tribunale dov’è rinchiuso un giovane in attesa dell’udienza di convalida del suo arresto, ancora, in questo paese, lo Stato continua a delinquere nei confronti di suoi cittadini inermi, nelle sue mani, ad abusare di loro, a tradirli, a violentarli, ad ucciderli.
Perché, evidentemente, alcuni, non pochi, uomini e donne dello Stato continuano ancora a pensare che, in fondo, la libertà, il corpo, la vita di un manifestante politico, specie se di sinistra, di un lavoratore in sciopero, di un migrante, di un tossico valgano meno di quella delle persone “normali”.
Il fatto, poi, che quest’ultimo assunto, in alcune occasioni particolarmente “qualificanti”, come quella che ha portato a morte Stefano Cucchi, venga concretamente condiviso da altri soggetti investiti di responsabilità pubbliche di cura delle persone, come i medici che hanno “curato” e, dunque, concausato l’esito nefasto per questo sventuratissimo paziente e che per questo sono stati (soli) condannati due giorni fa, la dice lunga su quale immane bonifica culturale ed etica andrebbe avviata, senza perdere un altro solo giorno, in ogni segmento delle cosiddette “classi dirigenti” di questo paese.
Con una menzione speciale, in vicende del genere, per la categoria medica, giacché, senza alcuna intenzione di fuorvianti generalizzazioni, “prestazioni” come quelle rese nella storia di Stefano Cucchi da parte di epigoni di Ippocrate non sono proprio estemporanee: qualcuno ricorda ancora il nobile dott. Giacomo Toccafondi (habent fata sua nomina), uno dei boia di Bolzaneto, uscito indenne solo per prescrizione dal processo penale che lo ha visto imputato per le torture inflitte a decine di ragazzi e di ragazze partecipanti alle manifestazioni di Genova 2001, in ordine al quale la Corte d’appello di Genova scrisse che questo signore era stato un medico “che anziché lenire la sofferenza delle vittime di altri reati, l’aggravò, agendo con particolare crudeltà su chi inerme e ferito, non era in grado di opporre alcuna difesa, subendo in profondità sia il danno fisico, che determina il dolore, sia quello psicologico dell’umiliazione causata dal riso dei suoi aguzzini”?
Ebbene, nei confronti di questo gentiluomo che visitava i suoi “pazienti” in mimetica invece che in camice bianco l’autorità giudiziaria non ha potuto far nulla per quella perla di giustizia tutta italiana che è nota come prescrizione del reato; ma, soprattutto, il suo ordine professionale non ha voluto far nulla, giacché non risulta emesso alcun provvedimento disciplinare verso di lui.
E, per chiudere il cerchio, qualche anno fa è stato premiato dalla sua Asl di appartenenza, la Asl Genova 3, diventandone uno stimato dirigente medico.
A proposito del rigore morale e dell’etica pubblica delle classi dirigenti.
Ma, il dato, se possibile, ancor più inquietante è quello per cui un pezzo di magistratura, l’organo dello Stato cui massimamente è devoluta la tutela della libertà e della vita dei cittadini in uno Stato di diritto (almeno a partire dal 1215, anno della Magna Charta Libertatum), sulla tutela della libertà e della vita “dei diversi” continua a pensare cose molto simili a quelle degli altri “soggetti di Stato” finora esaminati. E, pertanto, ritiene che se un uomo dello Stato, un pubblico ufficiale, si è macchiato di quei comportamenti illegali, di quei crimini contro uno di quei soggetti “marginali”, in fondo, questa non sia una buona ragione per condannarlo, per “condannare lo Stato”.
Forse, alla fine del processo per la morte di Stefano Cucchi (quella di ieri è solo la sentenza di primo grado, ci sono ancora due gradi di giudizio) si scoprirà che i giudici che hanno assolto gli uomini in divisa imputati delle lesioni e, dunque, dell’omicidio di un ragazzo di 31 anni, arrestato per il possesso di qualche decina di grammi di hashish, rientrano in quella parte di magistratura. Non maggioritaria, probabilmente. Ma neanche residuale, purtroppo.
Ma ora è presto per dirlo.
Quello che non è, invece, in alcun modo prematuro dire è che, anche sotto questo profilo, questo Stato, questo paese avrebbero bisogno, subito, di un enorme, rivoluzionario, processo di trasformazione politico – istituzionale, di rifondazione legalitaria, di rigenerazione civile che riguardasse anche e soprattutto gli uomini e le donne dello Stato.
A partire dagli “statisti”.
Ma, se molti uomini di Stato di basso livello presentano ancora oggi nel volto, nella “cultura” e negli atteggiamenti diffuse e ripugnanti incrostazioni di quell’inestirpabile virus nazionale che si chiama fascismo, “gli statisti” oggi hanno la faccia di un omino del subbuteo, come quella del nipote di Gianni Letta, o proprio quella di Giovanardi, che non necessita di specificazioni né di ulteriori incrostazioni.
In questo paese, il principio di uguaglianza e lo Stato di diritto si declinano, ancora molte, troppe volte, nel senso che gli apparati repressivi dello Stato usano la mannaia (o, nella versione più soft, il manganello) con gli oppositori politici e con i “rifiuti sociali” ed il piumino da cipria con i padroni (in senso lato), i loro sodali ed i loro servi.
Com’è noto, questo, tra gli altri, è uno dei presupposti politico – culturali fondativi del governo delle larghe intese.
Uno dei più nobili.
Uno dei più italici.
Fasano, 7\6\2013
Stefano Palmisano