Con questo articolo apriamo la rivista telematica alla presentazione, da parte degli stessi autori, di tesi di laurea, dottorato e master in materia di salute ambientale.
Riccardo Totano
Conflitti ambientali
Fino a 44 morti l’anno, direttamente imputabili alle emissioni inquinanti della centrale termoelettrica a carbone “Federico II” di Brindisi, secondo uno studio di tre ricercatori del CNR pubblicato dalla rivista International Journal of Environmental Research and Public Health.
Neanche questo dato allarmante sembra, ad oggi, in grado di scatenare un conflitto locale nel territorio brindisino. Oggi gli strumenti a disposizione degli amministratori locali, in termini di disciplina ambientale, di assoluto primo piano riguardo alla trasformazione dei territori che governano, si scontrano sempre più con problemi di gestione dei conflitti ambientali, intesi non tanto come classici conflitti tra “inquinatori” ed “inquinati”, quanto come contrapposizione di aspirazioni contrastanti, tutte apparentemente legittime, e differenziate soltanto da una diversa concezione di quali siano i beni che vanno prioritariamente salvaguardati e le procedure necessarie per affrontare il problema. Le situazioni complesse ed instabili che si vengono a creare costituiscono terreno fertile per la nascita e lo sviluppo di conflitti. I conflitti riferiti alle politiche ambientali, territoriali e paesaggistiche si presentano in diverse modalità: mobilitazioni preventive, figlie di una società civile sveglia e attiva, che fanno pressione su determinate scelte normative; opposizioni anche verso decisioni di tutela ambientale o paesaggistica o, addirittura, verso la realizzazione di impianti per energie rinnovabili. In tutti i casi, il conflitto, più che un’opposizione a qualsiasi decisione, rappresenta una crescente domanda di protagonismo dei cittadini nei confronti di un territorio vissuto e costruito collettivamente. Sempre più spesso progetti di interesse generale finiscono per arenarsi di fronte alle divergenze tra gli esperti, le amministrazioni pubbliche e le proteste locali, la cui rilevanza porta con sé dei costi politici, economici, sociali e psicologici. Tuttavia, accanto a situazioni ben note alle cronache nazionali ed internazionali, ne esistono altre che, seppur gravissime, continuano ad essere quasi del tutto ignorate dai mezzi di comunicazione, utilizzate in maniera speculativa dalle classi politiche centrali e locali e, aspetto ancor più grave, sottovalutate dalle popolazioni direttamente coinvolte. Tra queste, vi è Brindisi.
L’industrializzazione.
A partire dal dopoguerra, il territorio brindisino ha sacrificato la storica vocazione agricola e la nascente vocazione turistica, in nome di una presunta vocazione industriale che, calata dall’alto, ha setacciato numerosi territori dell’Italia meridionale alla ricerca di spazi inermi da convertire a periferie produttive del modello economico-industriale dominante. Questa sorta di “colonizzazione” dei territori periferici della penisola ha riguardato principalmente insediamenti ad alta densità di capitale, le cosiddette “cattedrali nel deserto” che, in nome di una standardizzazione produttiva, hanno calpestato le peculiarità dei singoli territori, trasformandoli in succursali dell’industria pesante: tipicamente energetica, chimica e siderurgica.
A Brindisi, una popolazione locale segnata da bassi livelli culturali ed economici, insieme ad una classe politica locale corrotta e clientelare, si sono fatti trovare impreparati all’arrivo di questi “giganti” dell’industria. Non solo, questa scarsa dotazione di capitale sociale ha indotto i locali ad accogliere a braccia aperte l’avvento di uno sviluppo industriale inizialmente promosso come strategico e salvifico, ma di fatto rivelatosi poi disastroso, dal punto di vista ambientale e sociale.
Decenni di noncuranza hanno, da un lato, permesso alle grandi aziende stabilitesi sul territorio di violentarlo a proprio piacimento, senza alcun rispetto per l’ambiente né per la salute pubblica, dall’altro, di indurre una vera e propria assuefazione nella cittadinanza, attraverso un costante tentativo di raccogliere largo consenso tra la popolazione locale, tramite la quasi onnipresenza del marchio negli altri ambiti della quotidianità cittadina.
Si osserva infatti come, oltre ad un classico ricatto occupazionale, buona parte della cittadinanza brindisina e degli altri comuni limitrofi interessati dalle produzioni del polo industriali, sia consensualmente coinvolta nelle attività promozionali in cui la grande industria ha deciso di presenziare, dalla sponsorizzazione di attività e società sportive, al patrocinio di eventi ed iniziative culturali che si svolgono sul territorio. Panem et circenses, dicevano gli antichi romani. Un’espressione che ben si presta a descrivere la situazione economica, ma anche psico-sociale, di una città che è inserita in un’area definita, dal Ministero dell’ambiente, ad elevato rischio di crisi ambientale ed è sede di un Sito di Interesse Nazionale per le bonifiche, in quanto “area soggetta, per quantità e pericolosità degli inquinanti presenti, a rilevante impatto ambientale in termini di rischio sanitario ed ecologico, nonché a pregiudizio per i beni culturali ed ambientali”.
La passività della cittadinanza.
La sorprendente drammaticità del caso di Brindisi sta, dunque, nell’incapacità della popolazione locale di elaborare un punto di vista, un’opinione critica, una presa di posizione, nei confronti di problemi che la riguardano in prima persona: come stenti a crearsi cioè una consapevolezza della realtà quotidiana, che investe chiunque e non solo gli impiegati nei settori critici. Una tale assenza ha permesso che il saccheggio di questo territorio non solo non incontrasse opposizioni, ma che riservasse ai suoi autori anche una benevola accoglienza. Anni e anni di immobilismo ed incompetenza, hanno fornito così alla politica gli alibi per alcune delle sue deficienze più gravi. In realtà, accanto alla inadeguatezza politico-istituzionale, economica, socio-sanitaria , ambientale e dell’informazione, per completare il quadro di questa città allo sbando, non si può non includere chi, probabilmente, è il maggiore responsabile di questo degrado: la cittadinanza. Assolutamente passiva e troppo spesso indifferente, ha da decenni abdicato dal proprio ruolo di protagonista assoluto nonché di controllore dei propri rappresentanti, scegliendo e ritagliandosi il poco nobile ruolo di assente ingiustificato ed ingiustificabile, relegando a sterili quanto inefficaci lamentele da pianerottolo, il proprio dissenso, nel quale l’apice dello sdegno e dell’azione si produce, comodamente seduti in poltrona, inveendo contro la televisione o producendo sterili invettive sui social network. Si capisce allora come la latitanza ingiustificata – quando non compiacente – delle istituzioni abbia lasciato campo libero alle multinazionali di agire indisturbate.
Oggi le conoscenze scientifiche su questi temi sono sufficientemente mature per avviare il processo decisionale. Cosa ancor più importante, la scienza ci dice che dobbiamo decidere urgentemente per l’intervento. Territori come Brindisi devono quindi “fare società locale”. Tra le difficoltà e le contraddizioni che sorgono in seno alla continua tensione tra integrazione europea, decentramenti amministrativi e richiami neo-centralisti, un corretto processo di sviluppo locale si lega ad un maggiore riconoscimento della necessità di promuovere la crescita di società locali, intenzionate a ritessere relazioni virtuose con il proprio ambiente insediativo, interpretandone i valori territoriali per produrre ricchezza durevole, elevando la qualità della vita e il benessere.
Un cambiamento dal basso.
Fondamentale risulta, a tale proposito, che i cambiamenti siano attivati dal basso, attraverso una maggiore consapevolezza diffusa che non può permettersi di aspettare i “tempi del palazzo”.
Esperienze costruttive come i patti per lo sviluppo locale o le città in transizione, sono destinati a prodursi proprio dalla tensione culturale e politica a riabilitare e riabitare i luoghi della terra.
Nel suo celebre libro “Collasso”, il biologo statunitense Jared Diamond si interroga sulle modalità con cui le società scelgono di vivere o morire e indaga inevitabilmente le motivazioni per cui i popoli fanno scelte sbagliate. Mancata previsione, mancata percezione, comportamenti razionali ma sbagliati, valori disastrosi, insuccessi dettati da comportamenti irrazionali sono tutti aspetti da non perdere di vista nel corso dell’analisi, se si volesse realmente concretizzare un cambiamento socio-ambientale.
Nel caso brindisino, che presenta dei livelli spaventosi di inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo e con gli allarmanti dati sulla salute pubblica, più che di mancata percezione del danno, si potrebbe parlare di vero e proprio fallimento razionale, ossia dovuto a scelte puramente utilitaristiche di affrontare le decisioni: anteporre gli interessi particolaristici a quelli comuni, un profitto di pochi a scapito dell’intera comunità, su cui viene distribuito il danno. L’attenzione progettuale dovrebbe dunque sistematicamente spostarsi sui processi in atto di ricostruzione delle condizioni di crescita delle società locali, anche a partire dai movimenti di resistenza e opposizione, proprio perché è dal consolidarsi di nuclei societari in grado di promuovere modelli di sviluppo autocentrato e sostenibile che può aprirsi l’orizzonte della costruzione di reti solidali di società locali, rette dalla costante tensione fra conflitti e cooperazione. Bisogna mettere a punto una nuova sensibilità, già imposta dalle minacce attuali, una – per dirla con Goleman – intelligenza ecologica, intesa come apertura a nuove possibilità, inevitabilmente collegata ad un risveglio collettivo di coscienza, una trasformazione nella percezione e idee fondamentali diffuse, che porterà a cambiamenti nel commercio e nell’industria, oltre che nei comportamenti e nelle azioni individuali.
In effetti, la spinta principale è da ricercarsi nelle componenti sociali ed economiche – accomunate non solo da una critica e da azioni conflittuali verso i modelli dominanti di globalizzazione economica, ma anche da pratiche quotidiane progettuali di vita e di consumo, da attività produttive locali alternative e da reti solidali – che producono critica, rifiuto e conflitto, ma anche crescita di società e identità locale attraverso l’auto-riconoscimento solidale, e sedimentano sul territorio frammenti di futuro.
*Tesi di Laurea Magistrale in Sviluppo Ambiente e Cooperazione, Dipartimento di Economia e Statistica “Cognetti de Martiis”, Università degli Studi di Torino.