Intervento al convegno I PROCEDIMENTI PENALI PER TUMORI PROFESSIONALI: GIUSTIZIA O INGIUSTIZIA? svoltosi il 23 settembre 2016 presso il Senato della Repubblica e pubblicato su Sanità24 de ILSOLE24ore il 27 settembre 2016.
«Quando il sapere scientifico non è consolidato o non è comunemente accettato perché vi sono tesi in irrisolto conflitto, spetta al giudice prescegliere quella da preferire. Per valutare l’attendibilità di una teoria [….] rileva il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica. Infine, dal punto di vista del giudice, è di preminente rilievo l’identità, l’autorità indiscussa, l’indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le quali si muove. Dopo aver valutato l’affidabilità metodologica e l’integrità delle intenzioni occorre [….] una teoria sulla quale si registra un preponderante, condiviso consenso».
Così la Corte di Cassazione, in una delle sue sentenze più note in questa materia (Cass. pen. Sez. IV, 17/09/2010, n. 43786, Cozzini), ha delineato il rapporto che deve sussistere tra il giudice e il sapere scientifico – ossia coloro che di questo sapere sono portatori nel processo: periti e consulenti – nei procedimenti penali aventi ad oggetto questioni nelle quali bisogna attingere necessariamente a discipline extragiuridiche per accertare la natura di determinati, centrali, elementi del processo stesso: eventi, nessi di causa tra condotte ascritte a dati soggetti e quegli stessi eventi e, conclusivamente, responsabilità penali degli imputati.
“Indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca”, “finalità per le quali si muove”, “affidabilità metodologica e integrità delle intenzioni”: questi aspetti sono stati affrontati, da diversi punti di vista professionali e, quindi, “epistemologici” in un convegno organizzato, il 23 u.s., al Senato da una serie di associazioni (tra cui Legambiente, Associazione Italiana Esposti Amianto….) in collaborazione con il senatore Felice Casson, avente ad oggetto “I procedimenti penali per tumori professionali: giustizia o ingiustizia?”.
Quei profili sono emersi come uno tra i più nevralgici nervi scoperti del rapporto tra scienza e diritto – più precisamente, tra scienziati e processo penale.
La natura e il livello degli interessi e dei diritti in questione, da tutte le parti, in questo tipo di vicende giudiziarie, infatti, non tollera, non può tollerare, l’intervento, e soprattutto, la considerazione da parte di chi giudica, di uomini e donne di scienza men che “indipendenti, affidabili e integri”, da qualunque parte del processo essi stiano.
I fondamenti di garanzia del nostro ordinamento penale impongono che la responsabilità di chi è accusato di un fatto di reato sia provata oltre ogni ragionevole dubbio.
Questo principio di civiltà giuridica non sopporta zone franche, non può trovare deroghe in nessun tipo di processo; neanche in quelli aventi a oggetto morti e malattie verosimilmente derivanti da esposizioni a sostanze tossiche.
Per arrivare a condannare una persona per omicidio o lesioni colpose in questo campo, quindi, occorre una base scientifica “sulla quale si registra un preponderante, condiviso consenso”, per dirla con le parole della Suprema Corte.
Quelli che rilevano, però, sono solo i dubbi “ragionevoli”; non possono essere presi in considerazione anche i dubbi artificiosamente creati e disseminati in sede dibattimentale da chi, pur nell’esercizio di una legittima funzione processuale (qual è quella di consulente tecnico di parte), strumentalizza, se non proprio distorce, evidenze scientifiche, dati di letteratura, posizioni di autori illustri.
Non può sopportare tutto questo la natura e “il grado” dell’altra classe di diritti in esame in questo tipo di giudizi: quelli delle persone offese, di chi, cioè, ha contratto una malattia micidiale solo perché ha lavorato in un certo posto e in un certo modo o ha vissuto vicino a una determinata industria; oppure dei parenti di coloro che quella malattia ha portato a morte.
E che, in alcune situazioni, ci si trovi in presenza di “vere e proprie distorsioni”, operate da parte di alcuni scienziati – consulenti, delle affermazioni di prestigiosi studiosi – distorsioni che poi fondano “inaccettabili tesi” – il Supremo Collegio non ha avuto problemi ad affermarlo perentoriamente (Cass. pen. Sez. IV, Sent. 27-08-2012, n. 33311).
Si pensi, su tutte, alla nota teoria (cui si riferisce la S. C. nell’arresto su citato) della c.d. “trigger dose” in materia di rapporto tra esposizione ad amianto e mesotelioma pleurico: l’assunto per il quale “tutte le esposizioni successive, pur in presenza di concentrazioni anche elevatissima di fibre cancerogene, dovevano reputarsi ininfluenti” (ibidem). Teoria, questa, chiaramente finalizzata a sostenere la difesa degli imputati in questi dibattimenti, che dalla Suprema Corte “viene squalificata come frutto di un artificio” (Cass. pen. Sez. IV, Sent. 16-03-2015, n. 11128).
In questo senso, pare francamente difficile contestare la categoria di “profanazione della scienza in ambiente giudiziario” di cui ha parlato il prof. Benedetto Terracini, decano dell’epidemiologia nazionale, nel convegno al Senato del 23 u.s.
Questo tipo di “inconvenienti” nel rapporto tra scienza e processo penale, peraltro, ben potranno riproporsi in quell’altro, vasto e complesso, filone processuale che, a breve, potrebbe aprirsi in seguito alla recente introduzione dei cosiddetti “ecoreati” nel nostro ordinamento giuridico.
Concetti come “compromissione o deterioramento significativi e misurabili” delle matrici ambientali (previsto nel delitto di inquinamento ambientale) o “alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema” (a base del delitto di disastro ambientale) dovranno esser definiti con il contributo imprescindibile dei saperi scientifici, prima di fondare imputazioni ma soprattutto condanne a carico di coloro cui saranno ascritti.
La natura e il livello, anche in questo caso, della posta in palio in queste vicende penali (la salvaguardia dell’ambiente e, quindi, della salute pubblica) non potrà, non dovrà tollerare contributi scientifici “frutto di artifici”, se non di “vere e proprie distorsioni”.
Sarebbe necessario che gli scienziati impegnati in questi processi penali, da qualunque parte processuale collocati, recepissero il monito che un filosofo del secolo scorso rivolgeva – in un contesto diverso, ma non troppo – all’ “uomo tecnologico”: “il Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce forze senza precedenti e l’economia imprime un impulso incessante, esige un’etica che mediante auto-restrizioni impedisca alla sua potenza di diventare una sventura per l’uomo.” (H. JONAS, Il principio responsabilità).