11 GENNAIO 2016
|Il Servizio Sanitario ha come scopo principale quello di conservare, promuovere ed aiutare il recupero della salute dei cittadini. Sarebbe pertanto paradossale o “controproduttivo” (per usare un aggettivo caro Ivan Illich) che proprio la organizzazione sanitaria fosse causa di malattia. Non ci si riferisce qui al vasto ed attuale campo della cosiddetta “malasanità” ma alla “patogenicità” che può rappresentare per alcuni (quanti?) lavoratori del servizio sanitario una cattiva organizzazione del lavoro.
In questi mesi si è denunciato da parte delle organizzazioni sindacali i rischi per la salute di medici ed infermieri derivanti da turnazioni stressanti perchè non intervallate dal giusto riposo o perchè svolte in carenza di organico.
Ma vi è un altro aspetto della organizzazione del lavoro in grado di incidere sulla salute dei lavoratori e sulla efficienza del servizio fornito ai cittadini: il pendolarismo.
Nel deficit di conoscenza riguardante il Servizio Sanitario, che stando alle dichiarate intenzioni si sarebbe determinati a colmare, rientra sicuramente il mondo dei pendolari.
Quanti sono? Quante ore di viaggio fanno ogni giorno? Per quanti giorni si ammalano ogni anno? E’ abbastanza intuitivo che un mal di testa al mattino per chi lavora nella stessa città in cui abita ha a meno probabilità di produrre un’assenza dal lavoro rispetto a quello di chi dovesse lamentarlo a 100 km di distanza dal luogo di lavoro.
La Puglia è lunga e stretta ma le articolazioni del Servizio Sanitario, che per tanti aspetti comincia ad essere concepito come unitario, su questo aspetto non trascurabile continuano a ragionare come monadi.
Proprio in questi giorni è stata resa nota una importante pronuncia della Corte di Giustizia europea in materia di orario di lavoro: “Il tempo di spostamento deve essere considerato come orario di lavoro”. Più precisamente, i lavoratori che non hanno un luogo di lavoro fisso e abituale hanno diritto a vedersi riconosciuto come orario di lavoro retribuito gli “spostamenti quotidiani dal proprio domicilio ai luoghi in cui si trovano il primo e l’ultimo cliente indicati dal datore di lavoro”. Siamo certi che questo principio non possa applicarsi ai pendolari del Servizio Sanitario data la sostanziale unitarietà del datore di lavoro?
Che viaggiare per andare al lavoro faccia male è nozione acquisita. Erk Hansson e colleghi nel 2011 hanno pubblicato un interessante lavoro realizzato in Svezia che correla modalità di spostamento (auto o mezzo pubblico) e sua durata con la percezione del proprio stato di salute, disturbi del sonno e numero di giorni di assenza di malattia. Lo studio tiene conto anche dei fattori confondenti come l’età, il sesso e la condizione socio economica. Viaggiare per oltre un’ora o anche meno determina stress e riduce la presenza al lavoro.(http://bmcpublichealth.biomedcentral.com/articles/10.1186/1471-2458-11-834)
La mobilità dovrebbe quindi essere inclusa nella valutazione del rischio richiesta ad ogni datore di lavoro evitando di esporre a lavori ad elevato contenuto attentivo personale sottoposto a tempi di percorrenza prolungati. Ma soprattutto è necessario sottrarre alla raccomandazione ed alla supplica la possibilità di mobilitare per scambio il personale, creando in Regione una bacheca on-line dove gli interessati ad avvicinarsi a casa possano trovare dei corrispondenti per uno scambio. In subordine si cechino soluzioni per ridurre i tempi di percorrenza (offerta di trasporti comunitari, ecc) che probabilemente costerebbero meno dei giorni di assenza. Quanti lavoratori vanno ogni giorno da Lecce a Bari e viceversa? Qualcuno si è preoccupato di saperlo?
Si tratta di una conoscenza decisamente alla portata del servizio sanitario della Regione Puglia della quale se ne gioverebbero i lavoratori e l’efficienza dell’assistenza sanitaria.