di Margherita Ciervo*
Relazione svolta il 13 gennaio 2019 alla UNITRE di San Vito dei Normanni (BR) nell’incontro “La Bioeconomia: un’opportunità per il pianeta o un’occasione per l’industria?” La trascrizione non è stata rivista dall’autrice.
Andiamo al significato etimologico del termine oikos nomos – gestione della casa – quindi bioeconomia, gestione della casa secondo le regole della vita. In effetti a questo significato si ispirano i primi intellettuali che hanno pensato un cambiamento dell’economia in questi termini. Però come spesso accade, le parole vengono prese, svuotate di significato e riproposte. E allora quando nel 2012 viene varata dalla Commissione Europea la strategia “Per la crescita sostenibile – una Bioeconomia per l’Europa” mi sono incuriosita e mi son detta: che bello andiamo a vedere di cosa si tratta. Sarà veramente la svolta, anche perché qualcuno l’ha presentata come una rivoluzione economica, invece forse di economico c’è poco, forse stiamo più nell’ambito di un ulteriore step della famosa rivoluzione industriale iniziata qualche secolo fa. E dunque andiamo a vedere questo rapporto.
È la riflessione e lo studio su questo rapporto che vi presento stasera perché sicuramente non ne abbiamo ancora contezza, giacché non è stato divulgato, ma questa strategia è del 2012 e nello stesso anno anche negli Stati Uniti e in Canada vengono varate strategie analoghe. In realtà segnerà il percorso economico, industriale, produttivo e anche culturale dei prossimi anni. Noi vi siamo già immersi ma ancora non ne abbiamo contezza. E allora la domanda è: questa bioeconomia è così auspicabile o meglio si ispira a quella visione di una gestione della casa secondo le regole della vita? Che cosa significa, mette al centro anzitutto le matrici vitali: acqua, aria, suolo, biodiversità, tutto ciò che ci permette di condividere come singoli e come società, come sistema ancor prima? Oppure è qualcosa di diverso – e da qui anche il titolo che abbiamo voluto per l’incontro di stasera – sarà qualcosa di positivo per l’ambiente o un’opportunità invece per l’industria?
La strategia europea sulla Bioeconomia
L’obiettivo di questa strategia. Il testo di questa strategia in inglese si trova sul sito dell’Unione Europea e dice: obiettivo di questa strategia economica per l’Europa è una società più competitiva, efficiente e innovativa che riconcilia sicurezza alimentare con l’uso sostenibile delle risorse rinnovabili per fini industriali tutelando l’ambiente. Questo è quello che dice questa strategia. Tutto quello che viene dopo è finalizzato dunque a una società più competitiva. Attenzione non nell’economia solo, una società più competitiva, è questo il modello che viene presentato e quindi, una serie di cifre che io vi riporto in termini di impiego a livello europeo: 18 milioni di posti di lavoro, fatturato sui 2,3 milioni di miliardi, valore aggiunto 621 e poi abbiamo quelli per l’Italia, praticamente 1,7 milioni di occupati, 250 miliardi di euro di fatturato. Tutto ciò viene presentato dai giornali come una chiave di sviluppo, una rivoluzione straordinaria cosicché alla retorica della crescita economica dei posti di lavoro si accompagna quella della sostenibilità ambientale. Se voi oggi prendete un giornale o mezzo di informazione digitate, per chi ha dimestichezza con Google, la parola “economia”, vi verrà presentata in questo modo. Ho diviso la presentazione in tre parti: andiamo prima di tutto a vedere la visione o se vogliamo la matrice ideologica, quale è l’idea che sta alla base di questa strategia? Dove stiamo andando o dove ci vogliono portare?
L’ideologia che sta alla base della bioeconomia proposta dalla Commissione Europea è la stessa dell’industria.
In che senso? Questo obiettivo di una Europa, competitiva, innovativa e sostenibile è l’obiettivo che si pone il consorzio delle industrie presenti nel campo, diciamo che viene definito “bio list”, ovvero quelle industrie finalizzate alla produzione di questo tipo di economia. Cosa voglio dire? Guardate che l’obiettivo della strategia dell’Unione Europea è uguale a quello dell’industria. Ma qualcuno potrebbe dire è proprio un copia-incolla? Ma come è possibile, hanno avuto tutti e due la stessa idea? Andiamo a vedere che forse, insomma, qualche collegamento c’è. Questa parte penso che abbia un suo significato perché ci dà la possibilità di capire i collegamenti e di capire in maniera più sostanziosa gli scenari che si prospettano ovvero quelli della crescita economica dove rifiuti, biomassa ecc. diventano materia prima per produrre tutte le tipologie di prodotti, dai combustibili alla chimica, all’alimentazione e all’agricoltura. E quindi il modello che si propone, questo è scritto nero su bianco dal consorzio, è quello di mettere a sistema il pianeta: cioè prendere, utilizzare la biomassa che si ricava sotto diverse forme colturali e utilizzarla, trasformarla in materia prima per produrre una serie di materiali combustibili, alimenti ecc. Parte di questi saranno trasformati nuovamente in materiale che sarà utilizzato sotto forma di energia piuttosto che di nutrienti cioè leggete concimi per la produzione di biomassa. Il ciclo si chiude, il che in teoria sarebbe anche una cosa positiva, se non fosse che è pensato a livello globale e quindi è l’intero pianeta ad essere messo a sistema, l’intero pianeta diventa una sorta di industria dove abbiamo produzione di materia prima, trasformazione e via dicendo. Allora vediamo chi sono questi personaggi e chi muove questo progetto, perché se c’è una strategia politica, affinché la strategia politica, a qualsiasi livello, dal comunale al globale, possa trovare sostentamento deve avere i finanziamenti. Sono quelli che indirizzano e che rendono possibile la concretizzazione. Qualcuno dice: vai a vedere da dove arrivano i soldi e si capiscono tante cose. Allora chi supporta fattivamente questo tipo di strategia di bioeconomia nella quale entreremo adesso fra un po’ più nello specifico? E’ una partnership pubblico-privata fra il consorzio degli industriali e l’Unione Europea. Questa partnership allo stato attuale si è basata su un primo fondo di circa 3700 miliardi che verranno impiegati secondo l’agenda di ricerca di innovazione strategica. Questa agenda da chi è realizzata? Dall’Unione Europea, dai politici? Dai Comuni? Dall’Accademia? No dal consorzio. Il consorzio degli industriali. Vediamolo da un’altra parte: si realizza una agenda di strategia e questa agenda viene fatta propria dalla partnership pubblico-privata dove c’è l’Unione Europea. Ma uno potrebbe dire: va bene, però la partnership è una partnership, quindi certamente il consorzio degli industriali avrà i suoi obiettivi e l’Unione Europea si suppone avrà gli obiettivi dei cittadini. Teoricamente però, se continuiamo a vedere questi collegamenti ci accorgiamo che il consorzio degli industriali fa parte di un’alleanza europea per la bioeconomia alla quale appartengono veramente centinaia e centinaia di industrie di diverso tipo. Questa alleanza europea stretta da diversi settori per sostenere la bioeconomia ha come obiettivo, guardate le parole, “l’accrescimento di consapevolezza dei leader regionali, nazionali ed europei sui benefici della bioeconomia sulle industrie bio based”. Non dice: ha come obiettivo la discussione, la messa a punto di una bioeconomia ecc. no, ma quella di creare consapevolezza – qualcuno potrebbe osare dire indottrinare, no? – i politici ideologicamente a vari livelli della scala spaziale. Quindi, questa alleanza formata dal consorzio degli industriali vuole incidere con la sua vision sui politici, sugli Stati membri dell’Unione Europea, sui politici dell’Unione Europea che hanno incarichi e poi questi si ritrovano, diciamo, nell’Unione Europea a prendere decisioni all’interno di questa partnership. Questa strategia di bioeconomia è supportata da finanziamenti, questi finanziamenti sono partnership pubblico – privato, l’agenda, l’obiettivo, la visione sono quelli degli industriali ma anche la componente pubblica in realtà riceve pressioni da quella privata.
Approccio tecnico antropocentrico
Leggendo questa strategia ci si accorge molto facilmente che l’approccio è tecnico antropocentrico. Ovviamente nei miei studi questo è tutto argomentato, però sinteticamente diciamo che questo è un approccio tecno antropocentrico. Che cosa significa? Che all’interno di questa strategia alla base, al centro non c’è la vita, non c’è l’oikos, non ci sono le matrici vitali ma c’è l’economia di crescita che nella migliore delle ipotesi deve tenere in considerazione l’ambiente. E’ la visione neoliberista, chiaramente neoliberista, basata sul produttivismo che sostanzialmente è la stessa alla base sia della vecchia economia fossile ma anche del più recente settore bioenergetico. Perché anche le biomasse, le famose biomasse, la bioenergia, la c.d. agro energia e quindi l’energia ricavata per esempio dalla materia organica, si presentava come una rivoluzione, come questa, in realtà poiché condotta su grande scala ha prodotto molte contraddizioni. Molte contraddizioni e molti problemi in termini di impatti ecologici e contraddizioni sul piano ambientale e socio economico e geopolitico. Quando si mettono a monocultura interi appezzamenti con l’obiettivo di trasformarli in bioenergia e questo però crea un impatto ecologico molto importante, forse si sta sbagliando qualcosa! Senza contare le tensioni e i conflitti territoriali e qui ci sono due carte geografiche che non sono state prodotte da me ma che io ho ripreso da uno studio che mette a paragone due scenari. Mettono a paragone due scenari perché quando noi parliamo di bioeconomia, parliamo di produzione organica. Se la materia fossile, se il petrolio deve essere sostituito, da che cosa deve essere sostituito? Dalla materia organica cioè coltivazioni, nuove culture su grandi scale o silvicoltura. Ciò si ottiene o intensificando le culture sui terreni già disponibili oppure continuando a deforestare e utilizzando quei terreni per nuove culture. Quali scenari si intravedono? Che questa è la simulazione dello scenario della desertificazione. E’ stata calcolata una perdita di aree naturali dovute alla conversione, nel senso di intensificazione, e chiaramente le parti più scure sono quelle che indicano delle perdite più sostanziose. E già in una situazione del genere, di semplice, tra virgolette, intensificazione andremmo incontro ad una situazione ecologica importante. Guardate cosa succederebbe, almeno nelle simulazioni, rispetto allo scenario della deforestazione. Praticamente si perderebbero fino a 60-80% delle aree naturali che verrebbero convertite per la produzione monoculturale. Quindi aree che sono forestate, sarebbero deforestate per utilizzare il suolo per le monoculture necessarie a produrre quella materia prima non solo per la bioenergia ma anche per fare i sacchetti ed i mouse di mais piuttosto che di plastica e via dicendo. Pertanto questa è la situazione rispetto al primo step.
Delocalizzazione: aumentano le distanze tra produzione e consumo
Il secondo step, la seconda riflessione, riguarda la relazione popolazione-risorse perché in questo rapporto si dice noi vogliamo convertirci alla bioeconomia. Per risolvere dei problemi. Per esempio? Il cambiamento climatico. Per esempio? l’esaurimento delle risorse, le pressioni ambientali. Si propongono come soluzioni quelle che abbiamo detto senza però fare una neanche una riflessione sul fatto che questi fenomeni: cambiamento climatico, esaurimento delle risorse, pressioni ambientali, non sono fenomeni calati dal cielo, sono il risultato, il prodotto dell’economia dominante e se vogliamo dirla tutta col suo nome e cognome, dell’economia industriale dove per industriale si intende non solo l’industria manifatturiera ma il modo di condurre l’economia, le monoculture. Anche l’agricoltura può essere condotta in maniera industriale. Per questo io non definisco questa proposta bioeconomia perché non mette mano alla gestione della casa ma guarda solo come sostituire le risorse scarse. Siamo in piena rivoluzione industriale. Il focus dunque di questa strategia è sull’offerta del prodotto, quindi non più materia fossile ma materia organica; intensifichiamo il ciclo produttivo. Perché bisogna crescere, non si mette in discussione la crescita economica, incrementiamo i fattori produttivi ma devono essere organici, abbattiamo i costi di produzione e soprattutto aumentiamo, adesso lo vedremo, la distanza fra i mondi di produzione, di trasformazione e di distribuzione. Guardate che la delocalizzazione, l’aumento della distanza fra la produzione, trasformazione e consumo sono quelli ai quali noi siamo abituati oggi e nei quali siamo completamente immersi. Perché se voi vedete un maglioncino che portiamo addosso e andiamo a vedere dove è prodotto, scopriremo che è prodotto nel sud est asiatico se non in Cina, se ci va bene in Turchia, in qualche caso in Albania, quindi la lana chissà da dove proviene, il cotone probabilmente viene dall’ex Repubblica Sovietica, viene prodotto in questi paesi. Lo stesso vale per la farina che utilizziamo.
L’impatto ecologico: il suolo e la tecnologia
Tutto questo crea un impatto ecologico enorme per non parlare di altri aspetti. Allora dire che la bioeconomia riproduce esattamente questo schema produttivo, produttivismo a distanza nei luoghi di produzione consumo e distribuzione, significa che noi stiamo completamente nel tipo di economia industriale. Inoltre non ci si interroga assolutamente sulla modalità di diminuzione di energia, della domanda di materia, della domanda di beni. Tutt’altro, il titolo è: una crescita sostenibile. Anche questo è un ossimoro: la crescita sostenibile; indiscutibilità del modello produttività, prospettiva fortemente tecno centrica. Per cui quale è la soluzione proposta? Gli strumenti tecnologici e finanziari per dare risposta a che cosa? Alla crescente domanda di mercato, alla scarsità delle risorse, all’inquinamento atmosferico. Mentre non sono considerati gli effetti ambientali di questa idea di economia come della messa a cultura del pianeta o di mezzo pianeta al fine di sostituire le materie fossili. Pertanto si delineano due momenti fondamentali: da un lato questo tipo di strategia che richiede un aumento delle risorse e della biomassa necessaria a produrre le merci. Ma la biomassa dove si produce per la maggior parte? Sul suolo quindi attenzione, perché qui ci possono essere molti collegamenti con quello che sta accadendo in questo momento nel nostro continente, nel nostro Paese, nella nostra regione. Il suolo, perché è sul suolo che io produco biomasse, le posso produrre anche in laboratorio ma è poca cosa. Dall’altro lato, attenzione all’alta tecnologia ed alla conoscenza tecnologica perché la produzione monoculturale non avviene secondo la modalità produttiva tradizionale, il contadino. Parliamo di un sistema monoculturale, industriale messo a sistema per cui da un lato questo tipo di strategia presuppone la produzione su grande scala e a grande intensità di biomassa, di risorse e di necessità di suolo. Dall’altro lato presuppone un alto livello di tecnologia e di conoscenza tecnologica che non è alla portata di tutti, ovviamente, ma solo di coloro i quali ne detengono il cosiddetto Know How. Bene andiamo a vedere come sono distribuite queste due risorse? Cioè la risorsa terra, la risorsa biomassa, e la risorsa del know how tecnologico della conoscenza. I paesi con il più grande potenziale di biomassa che su scala globale interessano ovviamente gran parte del centro sud America, dell’Africa, dell’Asia e tutta la parte sud dell’emisfero. Su scala europea chi riguarda? Noi, il Mediterraneo quindi Spagna, Francia meridionale, Italia in pieno, Grecia e tutta la sponda settentrionale dell’Africa. E’ quella fascia che ha un suolo e ha le condizioni meteorologiche per produrre con una maggiore intensità la biomassa.
E invece chi detiene la conoscenza tecnologica? Stati Uniti soprattutto alcuni paesi dell’Unione Europea, Germania, Inghilterra, Francia. Allora, dal punto di vista geopolitico che cosa emerge? Emerge un ulteriore inasprimento, se così si può definire, della divisione internazionale del lavoro che oggi è già presente. Noi abbiamo dei paesi, delle città globali che, diciamo controllano l’economia, i famosi paesi della triade Giappone, Stati Uniti e alcuni paesi dell’Unione Europea e tutti gli altri insomma sono delle periferie; ma questa divisione internazionale del lavoro si inasprirebbe ulteriormente. Perché aumenterebbe la pressione sul suolo. Perché mentre nell’economia fossile le risorse sono più puntuali, nella bioeconomia sarebbero praticamente diffuse, quindi un impatto potenzialmente davvero più importante.
La neocolonizzazione
Nella bioeconomia vi è intensificazione degli squilibri nelle relazioni di potere, sfruttamento ecologico e dominazione ecologica che potrebbe richiamare dinamiche di colonizzazione, di bio colonizzazione e competizione.
La competizione per la terra e per altre risorse scarse e anche per gli usi alternativi del suolo: l’interesse per suolo non è lo stesso tra chi avrà interesse a produrre il proprio cibo, chi avrà interesse a produrre cibo oppure bioenergia per esportarla, chi avrà interesse direttamente. Queste sono tutte competizioni che oggi sono già note in paesi come l’Africa, il Sud America come accaparramento della terra e che, se vediamo bene, le possiamo leggere in filigrana nei nostri Paesi. Delocalizzazione della popolazione dalle terre destinate alla bioeconomia con il sorgere di una nuova forma di immigrazione. Allora c’era l’immigrazione politica, economica, ambientale e adesso ci sarà una sorta di bioimmigrazione. In che senso? Cioè quella immigrazione causata dal fatto che la gente viene mandata via con metodi più o meno, diciamo, leciti o illeciti a seconda dei paesi per liberare il suolo e quindi emigra. Conflitti territoriali fra chi abita il territorio e tra chi del territorio vuole farci qualcos’altro.
Un piccolo approfondimento va fatto sulla questione tecnologia avanzata andando a vedere cosa dice il Forum Economico Mondiale che a dispetto del nome in realtà mette insieme gli industriali, i potenti, gli economisti ecc. ecc. Il Forum si esprime così in un suo documento ufficiale: il forum immagina il governo cioè i governi come un cliente dell’industria e l’industria come il fornitore di prodotti e tecnologie. Mi permetto di farvi osservare che non parla, non dice un cliente delle industrie. Eh già sarebbe stato spudorato! Ma dice un cliente dell’industria il che è un concetto diverso. Significa, almeno io così l’ho intuito, che le industrie si muovono insieme come un unico soggetto. Questo non è neutrale, perché questo avrà conseguenze e infatti in questo documento del 2010 a pag. 5 si dice che si preannuncia una nuova dinamica cliente-fornitore e si ipotizza di creare un’opportunità per l’industria di agire come un tutt’uno, in modo collaborativo – altro che concorrenza fra le industrie – per incontrare la domanda di innovazione in una modalità non competitiva. Scusate riflettiamo un attimo: allora a livello europeo ci dicono che la società deve diventare competitiva, i paesi competitivi tra di loro, le città competitive tra di loro, noi competitivi fra di noi.
Quella stessa industria che parla, spinge e fa in modo di inserire nei documenti anche europei il concetto oramai diffuso e dominante di competitività applicato alla società, quella stessa industria però dice che tra le industrie ci deve essere collaborazione e devono agire in modalità non competitiva. Questo che cosa significa? Che avranno un potere straordinario, una filiera superintegrata e un monopolio tecnologico a scala globale. Guardate che noi siamo stati abituati ad un monopolio di Stato, ultimamente anche a monopoli privati ottenuti in concessione, in gestione. Immaginate cosa potrebbe essere un monopolio tecnologico cioè di coloro che detengono la tecnologia e la materia prima per soddisfare tutti i bisogni primari e non primari della popolazione e dove i governi che teoricamente dovrebbero amministrare, rispondere ai bisogni della popolazione, sono dei clienti di questa industria che agisce non su scala nazionale ma su scala globale. Forse ce n’è abbastanza per ricominciare a riflettere.
La partecipazione inesistente
La terza tappa corrisponde al fatto che questa strategia si dice frutto del processo di partecipazione. Se si va a vedere sul sito si scopre che questa partecipazione è in realtà una partecipazione affidata ad una piattaforma online dove partecipano c.d. portatori di interessi. Sapete quanti hanno partecipato? 197 partecipanti. Non voglio dire persone perché in diversi casi erano quanto meno associazioni, quindi già erano una collettività. Ma parliamo di 197 soggetti, possiamo parlare di partecipazione? E circa la percezione del rischio si rileva, dal settore privato rispetto a questa strategia una percezione del rischio molto bassa. La percezione più alta ce l’ha chi ha la conoscenza, quindi magari gli studiosi e soprattutto chi è sul campo, chi già vede, vive il fenomeno di appropriazione delle terre cioè le organizzazioni non governative. Quindi quale è lo scopo di tale consultazione? Lo dicono chiaramente: l’informazione è utilizzata per promuovere la bioeconomia e il coinvolgimento dei cittadini. Essa ha lo scopo di facilitare il raggiungimento del consenso e assicurare l’accettabilità sociale e questa è la partecipazione. Vedete come ogni parola viene svuotata di significato. Nel loro documento si dice facilitare il raggiungimento del consenso e dunque evitare opposizioni e tensioni sociali.
Concludo dicendo che per sommi capi questo modello di bioeconomia non la bioeconomia, QUESTO modello, QUESTA strategia sia chiaro non è una rivoluzione economica. Tutt’altro perché lascia inalterati quelli che sono i principi industriali, è solo una delle numerose fasi della rivoluzione industriale. Si sono esaurite le materie prime, quelle fossili: carbone, petrolio, quindi gli industriali stanno facendo una operazione industriale trovando la sostituzione e questo piano di bioeconomia è fondato sugli stessi valori utilitaristici e riduzionisti, estende il concetto di competitività alla società ed è basato su una forte retorica, sostenibilità, efficienza, competitività. Tutto ciò non potrà che produrre, a mio parere, la stessa incoerenza tra obiettivi ed azioni che già abbiamo osservato con la bioenergia soprattutto con riferimento a quella di prima generazione.
*Margherita Ciervo, Docente di Geografia economica politica all’Università di Foggia
Trascrizione a cura di Angela Colasuonno. I sottotitoli sono redazionali.
23 gennaio 2019