Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nell’ intervento all’assemblea nazionale dei Comuni italiani (Vicenza, 11 Ott. 2017) ha dichiarato che “gli ottomila Comuni sono il tessuto connettivo della nostra Repubblica. Dal più grande al più piccolo hanno tutti la medesima dignità. Rappresentano, nel loro insieme, le differenti esperienze presenti nel Paese e la vocazione all’unità. Rappresentano la storia, con i tesori e la cultura prodotti nei territori, e al tempo stesso sono la frontiera dove si affronta la sfida con i tempi nuovi, e con le innovazioni necessarie per divenire artefici del nostro futuro”.
Ma la prassi politica locale e nazionale va in direzione opposta a queste parole illuminanti di Mattarella.
Cittadini e protagonisti dell’amministrazione, nell’analizzare la situazione attuale dei comuni italiani, da una parte riconoscono “meno male che il comune c’è”, ma dall’altra descrivono una crisi impietosa di tali enti.
Il sistema neoliberista da anni ha inciso negativamente sul modello di “comune-comunità” per rafforzare sempre più il modello di “ente locale-apparato”.
Il disegno di riorganizzazione dei servizi pubblici (legge 142/1990), la torsione oligarchica della forma di governo con il sistema maggioritario e l’elezione diretta del sindaco (legge 81/1993), la crisi economico finanziaria del 2008, con suoi tre fattori principali (il Patto di Stabilità e Crescita, la Spending Review e l’approvazione del Fiscal Compact), hanno spinto la politica a considerare i comuni una lente troppo piccola e insignificante per affrontare la macro crisi di sistema e una causa di spreco di risorse pubbliche. Fino a strangolarli con tagli finanziari drastici e lasciarli morire.
Secondo studi scientifici e pluridisciplinari, per rispondere alla crisi attuale la funzione del locale e del territorio è centrale. Così, partendo dall’idea di territorio come bene comune, emerge il valore dell’ente locale, quale organizzatore di servizi pubblici e produttore di opere pubbliche. Ma questo ruolo, pur importante, non basta più. Per qualificare il ruolo fondamentale che l’ente locale deve giocare in una società democratica, occorre che questo si riappropri di un ruolo chiave nello sviluppo socio-economico e nella costruzione di una idea di democrazia “completa”, capace di rappresentare non solo i cittadini ma anche i territori dove le persone abitano, lavorano, vivono. Senza mai scadere nel municipalismo campanilista, l’ente locale può essere il primo strumento insostituibile di democrazia, la scuola elementare della classe dirigente, il primo istituto dove si forma il cittadino alla polis.
Invece, la duplicazione del potere (centrale/regionale) sugli enti locali e le tendenze regionaliste separatiste, hanno concorso a svuotare gli enti locali di qualsiasi forma di democrazia dal basso e di conseguenza a lasciare sulla carta il principio di autonomia previsto dalla Costituzione (cfr. l’art. 5).
Un fremito riformatore è apparso in questi anni, in Europa e in Italia: gli accorpamenti intercomunali.
Sindaci e amministratori, colti da difficoltà di bilancio e abbagliati dagli incentivi economici promossi da Stato e Regione, sostengono che i comuni sono troppi. Ma quanti sono i comuni italiani?
Dal 15 maggio 2019, con l’istituzione del comune di Presicce-Acquarica (LE), mediante fusione dei comuni Acquarica del Capo e Presicce, il numero dei comuni italiani è di 7.914 unità. In altri comuni è in atto l’avvio del percorso di fusione.
In questa sede non è possibile il confronto con il fenomeno, complesso e articolato, della riduzione dei comuni nei paesi europei.
Ma se le aspettative di questo fremito riformatore favorevole agli accorpamenti intercomunali sono dovute a tagli di budget necessitati, “numerosi studi condotti ex post in Stati (europei) pionieri, disvelano panorami non esattamente rispondenti alle attese, dove i costi superano i risparmi e dove, in generale, si ravvisano «effetti collaterali negativi»” (G. Massari, in Federalismi, marzo 2016).
C’è un altro motivo che porta alla fusione dei comuni: essa appare una alternativa rispetto alla crisi delle molte forme di sovracomunalità previste dall’attuale Testo Unico degli Enti locali: convenzioni, consorzi, unioni, diversi ambiti… ecc.
Riteniamo, invece, che la vera salvaguardia dei comuni e l’alternativa alle fusioni è iscritta nella Costituzione e nei principi di differenziazione e di adeguatezza previsti dall’art. 118 della Costituzione: “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni (…) sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”.
Fin dall’Unità d’Italia è stato imposto il principio della uguaglianza di tutti i comuni. Al più piccolo e al più grande sono attribuite le stesse funzioni. Con la riforma del titolo V della Costituzione del 2001 la Carta volta pagina e stabilisce che le differenze non rompono l’unità e l’uguaglianza tra comuni ma le arricchiscono. Ma ancora (cfr. a riguardo la sent. n. 33 del 2019 della Corte costituzionale) il legislatore non ha avuto il coraggio di differenziare e di rendere adeguate le funzioni amministrative alle dimensioni dei vari enti locali. Ha scelto finora una via meno impattante politicamente: dare a tutti i comuni le funzioni fondamentali e imporre o lasciare loro la facoltà di associarsi eventualmente per la gestione.
Più innovativa e più coraggiosa sarebbe un’altra strada: non dare a tutti i comuni le funzioni fondamentali ma dare queste solo alla dimensione ottimale del territorio (tra 10 e 20 mila abitanti?). I comuni che da soli non raggiungono questa dimensione ottimale mantengono la forma giuridica e di rappresentanza politica, a loro si assegnano solo alcune funzioni adeguate alle dimensioni demografiche e territoriali. Le altre funzioni non esercitabili vengono affidate alla dimensione ottimale più vicina.
Appare sempre più lontana la stagione dei primi sindaci del 1993, visti come i nuovi amministratori simbolo di un’Italia che voleva cambiare. Dopo più di 25 anni dalla elezione diretta dei sindaci, quella novità, che aveva suscitato tante speranze, si è rivelata una illusione. Ma non per questo i sindaci si devono sentire impotenti e deresponsabilizzati. La deriva neoliberista che ha marginalizzato ed espropriato i territori soffia molto forte sugli enti locali. Agli amministratori – a chi se no? – compete, irrinunciabile, un obiettivo: lottare per rafforzare i comuni, anche quelli più piccoli, non smantellarli.
Antonio Greco
già sindaco del Comune di Veglie
(pubblicato su Nuovo Quotidiano di Lecce il 9 ottobre 2019)