Di Sandro Spinsanti
“Avremo presto bisogno di più morti. Ma come fare?”. Con questa domanda si conclude il bilancio di un sistema sociale messo alle corde dall’aumento di costi dell’assistenza destinata a soggetti non più produttivi, per l’età e la crescita di patologie. Il che fare a cui si perviene è ingegnoso: indurre gli anziani ad andarsene, introducendo l’”obbligo volontario” di ricorrere all’eutanasia. Lo propone un ipotetico comitato denominato FATER, competente per le questioni che riguardano la Fase Terminale della vita, creato presso il Ministero degli Affari sociali. Lo ha immaginato il romanziere Carl-Henning Wejkmark, collocandolo nella Svezia degli anni ’70 del Novecento (La morte moderna, 1978). Una distopia agghiacciante, mai formulata nella realtà in modo così cinico. Eppure c’è da domandarsi se ciò che il FATER teorizza non sia diventato, qualche decennio più tardi, una pratica sociale che ha luogo sotto i nostri occhi, a esclusione magari dell’esplicita brutalità di chiedere ai cittadini di farsi volontariamente da parte.
Non attribuiamo ai nostri amministratori la volontà di liberarsi del peso costituito dalle cure per i grandi anziani (a parte qualche uscita infelice sui morti della pandemia costituiti dalla parte non più produttiva della società…). Né la gestione catastrofica delle RSA, che ha prodotto un’ecatombe di anziani e non autosufficienti all’interno della pandemia stessa, può essere fatta risalire a un piano deliberato; è stato piuttosto il frutto di impreparazione e incompetenza. Ma ciò che la pandemia ha fatto emergere – assumendo letteralmente la condizione emergenziale come un “far emergere” ciò che già esisteva, anche se i nostri occhi non riuscivano a vederlo – quanto disfunzionale e carica di indebite sofferenze fosse la “normalità”. Per questa ragione la nostra aspirazione non può essere semplicemente quella di chiudere la parentesi dell’emergenza e tornare alla normalità precedente. Dobbiamo prendere coscienza di ciò che non andava bene nel trattamento che la nostra società riservava alle persone di età avanzata e cercare di cambiarlo. E osar immaginare un cambio di passo verso un sistema che non tenda a liberarsi dei vecchi, ma a prendersene veramente cura.
Ecco alcuni tratti ideali che vorremmo caratterizzassero il tempo culminante della vita, quello che conduce inevitabilmente ad affluire nel grande mare che tutti ci accoglierà, senza però trattare nessuno come scarto o come zavorra. Affinché la vita abbia, fino al termine, la quantità e la qualità che ognuno auspica per sé stesso.
Dovrebbe essere anzitutto un tempo di parole oneste. Sia nell’ambito dell’intimità familiare, sia in quello sociale. Lo scenario della cura riservata alla vecchiaia dovrebbe essere oggetto di una “conversazione” aperta. Da questa ci aspettiamo che emergano per tempo le alternative e le preferenze, ben prima che il possibile degrado cognitivo renda impossibile la condivisione. Parole oneste devono circolare anche dal punto di vista sociale. Solo se le persone e i nuclei familiari conoscono in modo veritiero con quali risorse la società verrà incontro alle loro necessità potranno prendere decisioni in modo responsabile. Fin troppe famiglie precipitano in una condizione di povertà per le cure di malattie croniche e degenerative che di fatto, se non di diritto, non sono garantite dal servizio pubblico. Sono quindi affidate al loro coinvolgimento diretto con spesa sanitaria privata: situazioni che provocano non di rado crolli sia finanziari che emotivo-psicologici.
Grazie a una comunicazione onesta, il segmento ultimo della vita può diventare il tempo delle scelte. Anzitutto per trovare il difficile equilibrio – e talvolta mutevole nel tempo – tra gli interventi curativi e quelli palliativi. La palliazione non è semplicemente ciò che subentra quando “si è fatto tutto il possibile” e si affaccia la constatazione che “non c’è più niente da fare”. Questa scansione del processo di cura in due segmenti successivi è fuorviante. Finisce per attribuire un carattere caricaturale sia agli interventi curativi che a quelli palliativi: i primi rischiano di sconfinare nell’irragionevole ostinazione terapeutica, i secondi si profilano come una transizione brusca in braccio a coloro che si occupano dell’agonia e del decesso, che crea l’impressione di un abbandono da parte dei professionisti curanti.
Fa parte delle scelte anche dove trascorrere il segmento di vita caratterizzato dalle cure rivolte alla grande vecchiaia e all’eventuale non autosufficienza. Il domicilio può costituire la prima scelta, se l’assistenza di caregiver e di curanti professionali è possibile e garantita in maniera sufficiente. Ma le preferenze potrebbero anche andare nella direzione di strutture che accolgono anziani e non autosufficienti, purché civilmente gestite, nonché di hospice per l’accompagnamento nella fase finale. Fa una grande differenza se il luogo delle cure supreme è scelto o è imposto da circostanze fuori controllo; se è previsto e programmato, o è invece sopravviene in condizioni di emergenza.
Infine l’ultimo tratto di strada ce lo immaginiamo come un tempo di crescita. Per qualcuno la crescita significa semplicemente giorni da aggiungere alla somma degli anni: nella misura in cui è ritenuto auspicabile e possibile. Non sono molte, in verità, le persone che condividono le preferenze espresse dall’oncologo e bioeticista americano Ezechiel Emanuel, che in un articolo che ha avuto molta risonanza, pubblicato nella rivista The Atlantic (2014, n.10) ha dichiarato che, considerate le patologie che si accumulano con il crescere degli anni e il conseguente degrado fisico e mentale, auspica di vivere solo fino a 75 anni (Ezechiel Emanuel: Why I hope to die at 75). I più aspirano segretamente all’immortalità e preferiscono estendere il più possibile la lunghezza della vita, nonostante le crescenti limitazioni che l’accompagnano.
Qualunque sia la lunghezza della vita che ci si augura, resta il fatto la crescita ideale è quella in consapevolezza, nell’orizzonte della spiritualità. Questa può essere religiosa o laica, nonché una singolare mescolanza dell’una e dell’altra: la sua caratteristica è di farci alzare sulla punta dei piedi sulla terra, qualunque sia il modello al quale abbiamo ispirato la nostra vita. Anche chi ha preso strade sbagliate può almeno acquisirne consapevolezza. Il ladrone crocifisso accanto al Messia – per convenzione chiamato il “buon ladrone”, benché nel Vangelo non sia qualificato come buono! – capisce alla fine di aver condotto un’esistenza contraria alle regole della giusta convivenza (Luca 23, 39-43). Così come il protagonista de La morte di Ivan Il’ic di Tolstòj conclude la revisione della propria vita con una constatazione amara: “Sì, tutto è stato come non avrebbe dovuto essere, ma non importa”. Tante altre possibilità di presa di coscienza si innalzano al di sopra di questi livelli minimi: bilanci esistenziali, perdoni da chiedere e da ottenere, riconciliazioni e risoluzioni di legami equivoci o morbosi. Fino a quelle “parole per il tempo che rimane” che costituiscono la “Terapia della dignità” proposta dallo psichiatra canadese Harvey Chochinov (Terapia della dignità, 2015), mediante le quali si intende lasciare un documento che sintetizzi la propria vita e rafforzi i legami che con la morte prenderanno la fisionomia del ricordo.
Sì, certo: seguire la via spiccia suggerita dal FATER costa meno dal punto di vista economico. Non richiede neppure gli sforzi necessari per modificare gli atteggiamenti culturali della nostra società nei confronti della vecchiaia e far aumentare la consapevolezza che siamo chiamati per tempo a fare delle scelte. A meno che il costo non sia quello che saremmo costretti a pagare in termini di degrado della civiltà.
Roma, 18 dicembre 2020