di Vito Totire*
Un evento tragico spesso induce alla rimozione; ma la rimozione non è una forma di rispetto del lutto; spesso anzi non contribuisce neppure alla sua necessaria elaborazione; da lungo tempo mi assilla un dubbio; esattamente da quando lessi della disperazione di una ragazza la cui madre era estata uccisa a colpi di pistola dal suo convivente (attività lavorativa: agente di custodia nel carcere di Ferrara); quella ragazza si chiedeva cosa si potesse fare per prevenire il ripetersi di simili crimini.
Quello che non mi era chiaro – già allora – era per quale motivo l’aggressore avesse in dotazione la pistola con facoltà di portala con sé a domicilio; il discorso sula violenza è complesso ed evoca convinzioni inveterate quanto infondate, pregiudizi e stereotipi; chi è cresciuto alla scuola di pensiero di Franco Basaglia e Giorgio Antonucci è consapevole della infondatezza e della pericolosità di certi miti; già decenni fa abbiamo letto e riflettuto sul libro di T. Scheff “Per infermità mentale” che dimostra la inconsistenza del mito della pericolosità del “folle”; infatti il carabiniere – in attesa di giudizio – accusato di aver ucciso a Sava, non è un “folle”, non è un paziente psichiatrico, a confermare, tragicamente, quanto già era acquisito; perché quella esplosione di violenza? Non ho nessuna pretesa di rispondere a questa domanda; chi lavora in certi comparti vive senz’altro condizioni di frustrazione, di distress lavorativo, di burn-out che possono “facilitare” reazioni comportamentali violente; ma mi fermo qui perché gli elementi a mia conoscenza sono praticamente nulli; premesso che non è con il “controllo” e la sorveglianza che si possa neutralizzare completamente le reazioni violente, è anche vero che certe disponibilità materiali possono amplificare gli effetti della collera e comportare conseguenze molto tragiche fino alla strage; la storia, anche attuale, degli USA evidenzia il nesso tra disponibilità di strumenti di offesa e stragismo; allora torna la domanda che la giovane figlia prima citata aveva posto pubblicamente: perché chi ha in dotazione un’arma non la lascia sul suo luogo di lavoro, finito il turno? Per esempio nella cassaforte della caserma.
Certo può nascere una obiezione circa il rischio anche extra-lavorativo per un carabiniere; ma è pure vero che le situazioni possono essere molto diverse da caso a caso; tuttavia: è possibile che un conflitto familiare affrontato da un carabiniere che ha lasciato l’arma in caserma (perché questa dovrebbe essere, a mio avviso, la “norma”) si concluda in maniera ben diversa che con quel triplice omicidio di cui oggi quella persona è accusata? Che non si tratti di un interrogativo soggettivo di un osservatore angustiato dalla violenza di cui ha avuto notizia giornalistica lo mostra una recente (agosto 2017) sentenza del Tar della Calabria che ha accolto una istanza, appunto restrittiva, della Prefettura di Vibo Valentia.
E allora torna un interrogativo: nel nostro paese, dobbiamo intervenire solo e sempre “il giorno dopo”? Il governo e l’arma dei carabinieri non avrebbero dovuto (o potuto) già provvedere in questo senso? Peraltro il personale armato non potrebbe essere monitorato – bene inteso consensualmente e confidenzialmente – per facilitare la emersione di comportamenti e pulsioni etero ed auto-aggressive? Sono gli stessi lavoratori del settore che – inascoltati – lo reclamano da decenni.
I miei dubbi non saranno utili per alleviare il dolore causato dall’accaduto ma ho preferito esternarli con la speranza che, minimamente, possa essere utile per prevenire analoghi eventi futuri.
Bologna, 1 dicembre 2017
*medico psichiatra