Di Maurizio Portaluri
“L’etica e la spiritualità hanno avuto un nuovo diritto di cittadinanza in medicina… Un nuovo rapporto tra la medicina scientifica, che <conta> – quella dei numeri, delle prove di efficacia, dei protocolli e delle linee guida – e quella che <racconta>, cura con la parola e personalizza le cure”. Con queste parole Sandro Spinsanti, bioeticista tra i più noti nel nostro paese, introduce il suo ultimo saggio dal titolo che richiama forse un “giallo”, ma il cui sottotitolo fuga ogni dubbio sull’intento. (Questioni di vita & di morte. La spiritualità nell’ultimo tratto di strada, Ed. Messaggero di Padova, settembre 2020, pp. 102). “Tutto il percorso di cura è coinvolto, ma in particolare il segmento finale” dalla esigenza di spiritualità che per entrarvi deve trasformarsi lasciando cadere “ogni tendenza al proselitismo” e accettando “la laicità delle strutture sanitarie, quale difesa dalle aggressioni di tipo confessionale”: “la spiritualità è chiamata a concentrarsi sul compito di dare forma alla speranza; trascendente o immanente, aperta all’aldilà o circoscritta all’orizzonte terreno”, una “buna compagna di strada” per chi cura che per chi è “protagonista del duro lavoro di morire”.
Il saggio arriva involontariamente in coincidenza della lettera della Congregazione per la Dottrina della fede “Samaritanus bonus” e di un anno terribile dove la pandemia di Covid19 ha messo la nostra società, così abile a nascondere ogni rappresentazione della morte, di fronte a scene inconsuete di una morte numerosa e solitaria al tempo stesso. Un richiamo, quello del lavoro di Spinsanti, alla complessità delle problematiche etiche, spirituali, relazionali ed anche mediche dell’ “ultimo tratto di strada” di fronte alla quale le scorciatoie sarebbero comode ma purtroppo non esistono.
Il libro, in realtà uno “smartbook” lo chiama l’editore, si compone di tre capitoli ed è aperto da alcuni versi di Franco Arminio tratti dal suo “Cartoline dai morti”. In “La spiritualità esiliata alla fine della vita” ci dà un quadro di come sia imprevedibile il tempo del fine vita e della difficoltà per le “cure palliative” di situarsi nel percorso della medicina nel suo complesso. Come nella medicina che tende ad abbandonare il malato quando ritiene che le sue risorse tecnologiche non sono più necessarie, anche nelle “cure palliative” il movimento della bioetica, nato a metà del XX secolo, ritiene che le decisioni vanno prese in due: “mettendo in forte rilievo la soggettività della persona malata, la bioetica riscriveva le regole con cui i medici erano soliti prendere le decisioni di cura”. Vi è una variabilità soggettiva per esempio nella soglia del dolore per cui non si può pensare che vi sia una “taglia unica”. Il principio fondamentale della bioetica è che “la buona medicina della modernità non si ottiene senza il coinvolgimento della persona malata nelle decisioni che la riguardano”.
Sia l’aggettivo “palliativa” che la parola hospice sono in grado di scatenare reazioni violente di rifiuto e talvolta di accelerare il decesso. La medicina del fine vita è ancora una Cenerentola se dobbiamo prendere sul serio la survey realizzata dalla Regione Toscana, unica in Italia, in tre resoconti intitolati “La qualità dell’assistenza nelle cure di fine vita in Toscana” pubblicati nel 2017,2018 e 2019. “Nel triennio in questione il profilo assistenziale dei pazienti con malattia cronica o a prognosi infausta è ancora quello dell’acuzie, con altissima probabilità nell’ultimo mese di vita di finire in pronto soccorso e di terminare in terapia intensiva. Ancora il 77% di questi pazienti non riceve cura palliative. La degenza media in hospice è di 7 giorni per i malati oncologici e di 5 per quelli non oncologici”. Non osiamo immaginare quale sia la situazione nelle regioni meridionali e nelle realtà dove non ci sono hospice!
In “La <buona morte>: destino, fortuna o responsabilità personale” Spinsanti passa in rassegna le concezioni della modalità del fine vita come “destino” o “fortuna” e i numerosi riferimenti letterari e artistici che chiariscono l’immaginario umano su questa fase ineluttabile della vita. Sia che decida Dio, con tutte le riserve sollevate da Giobbe di fronte ai teologi saccenti, sia che decida la natura con le sue “più sgradevoli sorprese”. Di fronte alla morte ci sono gli atteggiamenti che vogliono ignorarla (La morte di Ivan Il’ic di Tolstoj) o quello resiliente descritto in Una decisione da Thomas Bernhard che si era prefisso di uscire ad ogni costo dal sanatorio che lui chiamava il “trapassatoio”. Gli uomini giocano anche a rimpiattino con la morte come nella fiaba dei fratelli Grimm “Comare Morte”. Il protagonismo del morente può presentarsi sotto la modalità esperita da Susan Sontag “che vuole una possibilità di sopravvivere, sia pur minima; e non importa in quali condizioni”, oppure quella descritta dal giurista tedesco Peter Noll che nel suo Sul morire e la morte del 1985 rifiuta i trattamenti antitumorali “Non voglio finire nella macchina chirurgica-urologica-radiologica, perché così facendo perderei pezzo a pezzo la mia libertà”. E motiva la sua scelta nel suo credo religioso: “Se io entro in questa strada, da adesso in poi sarà la medicina che deciderà la mia vita. Io voglio, come il ‘libero’ Gesù, poter scegliere e non lasciar che altri scelgano per me, non voglio lasciarmi guidare…Mi avrebbero asportato la vescica, sarei stato sottoposto a radiazioni, e ciò nonostante non avrei avuto che un 35% di possibilità di sopravvivenza limitata nel tempo e mutilata”.
In “Accompagnare i morenti: un’opera di misericordia per il nostro tempo?” si propone di modellare secondo le esigenze del nostro tempo le opere di misericordia corporale e nel nostro caso bisogna rimodellare il “seppellire i morti”: “l’opera di misericordia innovativa è l’elaborazione e l’esercizio di una nuova ars moriendi”. L’ars moriendi è un genere letterario che raccoglie centinaia di manuali: raccolte di preghiere e meditazioni sulla morte, avvertimenti ai moribondi sulle tentazioni, consigli alle persone che assistono. L’ars moriendi considerava la morte come un processo per il quale l’uomo ha bisogno di aiuto: “come deve essere aiutata ad entrare nella vita, alla nascita, così deve essere assistito per uscirne”. Nell’ars moriendi la medicina è considerata estranea e prevale il compito filosofico-religioso. Gregorio Magno con la prolixitas mortis: la morte che si dilunga coincide con l’esperienza del limite e della finitezza; Erasmo da Rotterdam in La preparazione alla morte ripropone il memento mori per dare più valore alla all’esperienza terrena inquadrandola entro un orizzonte di finitezza. E poi Pascal, de Montaigne. Nella nostra epoca sono sorti “esperti del morire” come Eliabeth Kubler Ross con le classiche “fasi del morire”, Marie de Hennezel che con l’appoggio di François Mitterand promosse l’ <aptonomia> “ossia la scienza del contatto affettivo che si stabilisce attraverso il contatto tattile”.
Una morte con “qualità umana” deve fronteggiare difficoltà che ruotano intorno a due poli: “la miseria di morire in solitutudine e la miseria di non avere lo spazio di solitudine necessario per morire”. Esiste oggi una “distanasia” dovuta al venir meno della giusta distanza tra chi muore e chi lo assiste. Il morire sembra un inferno. In passato l’assistenza religiosa che lo storico Delumeau chiama “pastorale della paura” trattava la morte come punizione. Il sociologo Norbert Elias ne La solitudine del morente considera questa un “prezzo della civiltà”.” Il muro della solitudine è infranto dalla parola”, dice Spinsanti. “Non soltanto quella che fanno i viventi su coloro che muoiono, ma anche la narrazione dei morenti stessi”. Il buddismo tibetano ha costruito intorno alle parole da dire al morente il Libro tibetano dei morti, un’importante pratica rituale. In Vestire gli ignudi, una pièce teatrale di Luigi Pirandello si narra di una donna che tenta il suicidio e cerca di costruirsi una bella storia, una bella figura che però viene svelata nella sua falsità per cui morirà “ignuda”, senza un bel vestitino a cui pensava di avere diritto. Per non “morire nudi, senza una storia da raccontare” molti scrittori e poeti hanno creato opere di fantasia, ma “l’incombere della morte può anche diventare una opportunità per un momento di conoscenza (insight) in cui la persona rivaluta le attività della propria vita e le riformula in interazione con i propri i cari”. Si chiama “terapia della dignità” e viene proposta dallo psichiatra canadese Chochinov: attraverso un processo articolato consente a chi lo desideri di fornire una narrazione della propria vita che darà luogo ad un “documento generativo” il quale verrà consegnato alla persona intervistata che lo consegna in genere ai suoi cari. Un modello che ha riscosso molto successo e si è diffuso in molti paesi.
Dopo aver trattato il problema delle disposizioni di fine vita che dovrebbero vedere coinvolti maggiormente persone di fiducia del malato, l’Autore si congeda con dei versi di Arminio che ci ricordano che il contesto della morte non è sempre poetico ma lascia il passo a volte alla prosa che può essere rappresentata da un chiacchiericcio insignificante e da indifferenza.
Qui la fine della primavera e la fine dell’inverno
sono più o meno la stessa cosa. Il segnale sono le
prime rose. Ne ho visto una mentre mi portavano
sull’ambulanza. Ho chiuso gli occhi pensando a quella
rosa, mentre davanti l’autista e l’infermiera parlavano
di un ristorante nuovo dove ti fanno abbuffare e si
spende pochissimo.
(Cartoline dai morti)
Un libro che stimola all’approfondimento su un tema che dovrebbe impegnare di più quanti vi sono coinvolti, professionisti della medicina, familiari, ognuno di noi che non vogliamo guardare la morte “di profilo”.
Brindisi, 4 ottobre 2020