Il 14 febbraio scorso a Brindisi, prima che scoppiasse la vicenda coronavirus, si è tenuta una conversazione sul tema E’ in pericolo il servizio sanitario pubblico? con Gianluigi Trianni, medico di organizzazione sanitaria che ha ricoperto incarichi manageriali in aziende sanitarie (anche in Puglia), fondatore del Forum Diritto alla Salute dell’Emilia Romagna. Di seguito una sintesi del suo intervento.
Le proposte di regionalismo differenziato concordate dalle regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, con minime variazioni, con il Governo Gentiloni nel 2018 e la cui approvazione è insistentemente sollecitata dai rispettivi presidenti al governo Conte prevedono, tra l’altro, che siano “attribuite ulteriori competenze legislative ed amministrative nella materia della “tutela della salute”, di cui all’art. 117, comma 3, della Costituzione, sui seguenti ambiti:
a) Personale: rimozione di vincoli specifici presenti e futuri in materia di personale;
b) Scuole di specializzazione: sistema e criteri di accesso;
c) Sistema tariffario, di rimborso, di remunerazione e di compartecipazione alla spesa;
d) Sistema di governance;
e) Farmaci: distribuzione ed equivalenza terapeutica;
f) Patrimonio edilizio e tecnologico: propri percorsi autorizzativi e risorse certe;
g) Fondi integrativi regionali: misure di semplificazione, agevolazione e ampliamento
Sono queste tutte tematiche di politica sanitaria a dimensione nazionale e cioè comuni sia alle 3 regioni a statuto ordinario (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) che già hanno avanzato richieste di autonomia normativa in proposito, sia alle altre 10 che si apprestano a chiederla, sia alle 2 che ad oggi non hanno preso in considerazione tale richiesta, sia alle 5 a statuto speciale (Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto Adige/Sudtirol, costituita dalle Province autonome di Trento e di Bolzano, e Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste).
Nessuna Regione cita e fa riferimento ad una problematica sanitaria specifica sua propria, come prevede una lettura accorta del comma 3 dell’art.116 che fa riferimento a “forme e condizioni particolari di autonomia”, cioè a “forme e condizioni particolari” rispetto a quelle già definite come oggetto di legislazione concorrente delle regioni, tra cui la sanità, previste dall’art. 117 della Costituzione, e rispetto ad esse “ulteriori”.
Autorevolmente osserva in proposito M. Villone su “Il Manifesto” del 07.11.2019: “E’ decisiva la lettura che si dà dell’art.116 terzo comma della Costituzione come norma volta a limitate modifiche di adattamento ad esigenze locali, e non a uno stravolgimento degli assetti costituzionali”.
Peraltro l’art.116 3° comma precisa che “possono” essere richieste, non che debbono, checché ne dica a vanvera ed arrogantemente la propaganda leghista e quella del ministro Boccia.
Tutti i problemi citati, inoltre, sono generati dalle politiche di austerity (tagli della spesa pubblica) e privatizzazione strisciante e progressiva del SSN, comprese le agevolazioni fiscali per i fondi sanitari integrativi privati e regionali, adottate dai governi e dalle maggioranze parlamentari che si sono alternate negli anni e mai contestate decisamente dai presidenti e dalle assemblee regionali.
L’impatto è stato quantificato nel dicembre 2019 dallo stesso Ufficio Parlamentare di Bilancio col Focus su “Lo stato della sanità in Italia” in una riduzione del Fondo Sanitario Nazionale, tra il 2010 ed il 2019, di ben 37 miliardi di euro.
La maggior voce di spesa tagliata, naturalmente, è stata quella del personale con una riduzione di ben 8.000 medici e di oltre 40.000 altre figure professionali, avviata con il blocco del turn over iniziato dalla finanziaria del 2006 che impose a regioni, enti locali e al SSN di non superare nella spesa per il personale “il corrispondente ammontare dell’anno 2004 diminuito dell’1 per cento” (!!!), solo lievemente attenuato sino ad oggi.
E ciò senza tener conto delle esigenze di maggior personale legate allo sviluppo delle tecnologie assistenziali, della giusta legislazione europea a tutela del lavoro in sanità che comporta più personale a parità di attività assistenziali, della sotto dotazione storica rispetto agli altri paesi europei, del blocco per circa dieci anni dei contratti, del precariato e delle esternalizzazioni dei servizi di supporto alla assistenza diretta (vitto, pulizie, trasporti).
E si pretende di affrontare tali questioni con interventi regionali in ordine sparso, ciascuna regione per sé e con risorse interne o comunque acquisite con una riduzione dei contributi fiscali al bilancio nazionale che sarebbe necessariamente, anzi è già oggi, a scapito delle altre regioni, visto il vincolo al pareggio di bilancio introdotto in Costituzione con la modifica dell’art. 81 nel 2012?
Non solo sarebbe Far West e ulteriore balcanizzazione della già balcanizzata sanità pubblica italiana, come sanno da decenni ormai i cittadini italiani quanto ad efficienza ed efficacia dei sistemi sanitari regionali, ma si pretenderebbe e si pretende di affrontare in modo sparso e disorganico problemi che per complessità e dimensioni sono sproporzionati alle capacità ed alle possibilità di gestione di politiche ed apparati regionali e che offenderanno anche il sistema sanitario pubblico persino in Emilia Romagna e nelle regioni del Nord, non solo quelli meno efficienti ed efficaci del Centro e del Sud.
O si crede che le singole regioni, più o meno virtuose, possano da sole fronteggiare le politiche dei prezzi e dei rifornimenti di farmaci di Big Pharma?
O contrastare le potenziali esosità e la discrezionalità finalizzata al profitto nelle decisioni sulle tipologie di prodotto da rendere disponibili agli utenti delle grandi catene di distribuzione dei farmaci ormai transnazionali, come ADMENTA Italia S.p.A., holding italiana della società McKesson Europe il cui azionista di maggioranza è McKesson Corporation, con sede negli Stati Uniti, “leader a livello globale nella catena di fornitura di servizi sanitari, gestione di farmacie, oncologia per la comunità e fornitura di soluzioni tecnologiche per la salute”, che gestisce, dopo la loro svendita, le ex farmacia comunali di Modena?
O le catene transnazionali della spedalità privata?
Non è un caso che la Costituzione, citata a ripetizione e a vanvera dal ministro Boccia e non solo, preveda con l’art. 5. che: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i princıpi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”; e però sancisca con l’art. 118, comma 1, che: “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”
Sancisce cioè non solo i principi di sussidiarietà e differenziazione ma anche quello di adeguatezza, cioè la caratteristica di ciascuna articolazione istituzionale della Repubblica di essere adatto a conseguire i risultati attesi dall’azione amministrativa.
Ciò fermo restando che (art 2) “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” e che (art. 3) “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
Lo stesso Ministro della Salute, on. Speranza, inoltre, nella sua audizione pressolaCommissione parlamentare per le questioni regionali, lo scorso 14.11.2019, ha:
– definito “problematica” la possibilità di affidare ad una singola Regione, in totale autonomia, la determinazione dell’intero sistema tariffario, di rimborso e di remunerazione della spesa sanitaria, arrivando a rilevare che “lasciare esclusivamente alle Regioni la completa autonomia in tale ambito porterebbe con sé il rischio di violazioni del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’articolo 3 della Costituzione”
– segnalato l’opportunità di conservare uno stretto coordinamento tra la funzione di programmazione sanitaria e quella di programmazione della formazione medico-specialistica, le cui esigenze sono definite unitariamente a livello nazionale dal MIUR
– asserito che: “Il complesso delle disposizioni legislative dedicate a regolare la materia affida all’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) competenze che sono state ripetutamente ed univocamente qualificate come esclusive dell’autorità statale sia dalla giurisprudenza costituzionale (Corte costituzionale, sentenza n. 151 del 2014, n. 151; n. 8 del 2011; n. 44 del 2010) che da quella amministrativa (Consiglio di Stato, sez. III, 8 settembre 2014, n. 4538; sez. V, 7 ottobre 2008, n. 4900; sez. III, n. 2229 del 2018).
L’AIFA, infatti, è nata per garantire l’unitarietà delle attività in materia di farmaceutica, sul presupposto che “il farmaco rappresenta uno strumento di tutela della salute e che i medicinali sono erogati dal Servizio Sanitario Nazionale in quanto inclusi nei livelli essenziali di assistenza”.
La stessa Corte costituzionale (cfr. sentenza 14 novembre 2003, n. 338) ha affermato che: “Stabilire il confine fra terapie ammesse e terapie non ammesse, sulla base delle acquisizioni scientifiche e sperimentali, è determinazione che investe direttamente e necessariamente i principi fondamentali della materia, collocandosi ‘all’incrocio fra due diritti fondamentali della persona malata: quello ad essere curato efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell’arte medica; e quello ad essere rispettato come persona, e in particolare nella propria integrità fisica e psichica’ (sentenza n. 282 del 2002), diritti la cui tutela non può non darsi in condizioni di fondamentale eguaglianza su tutto il territorio nazionale”.
La successiva sentenza n. 274 del 2014 ha ribadito che “decisioni sul merito delle scelte terapeutiche, in relazione alla loro appropriatezza, non potrebbero nascere da valutazioni di pura discrezionalità politica del legislatore, bensì dovrebbero prevedere ‘l’elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi – di norma nazionali e sovra-nazionali – a ciò deputati, dato l’essenziale rilievo che a questi fini rivestono gli organi tecnico-scientifici’ (sentenza n. 282 del 2002)”.
Inoltre, sia per le decisioni sul payback sia per quelle sulla equivalenza terapeutica, la previsione di un potere sostitutivo delle Regioni non appare conforme al principio di sussidiarietà verticale di cui all’articolo 118, comma 1, della Costituzione, oltreché al dettato dell’articolo 120 della Costituzione, che, come noto, contempla il potere sostitutivo dello Stato nei confronti delle Regioni e non viceversa.
Queste considerazioni esposte dal ministro Speranza e dal suo ministero già inficiano la richiesta di ulteriore autonomia regionale in sanità avanzata nel 2018 per aspetti essenziali relativi ai farmaci, ai ticket ed ai sistemi tariffari, al personale medico specialista.
Ma la proposta è da ritirarsi anche per i temi non citati dal ministro Speranza quali il tema dell’edilizia sanitaria e quello dei fondi sanitari integrativi.
Per entrambi vale, infatti, la dimensione “nazionale”, comune cioè a tutte le singole regioni d’Italia e quindi per ciò stesso comune/nazionale.
Tra l’altro in comune, a proposito di edilizia, c’è anche una evidente sotto finanziamento dello specifico capitolo a dimensione nazionale, confermato nonostante le enfatizzazioni dalla finanziaria 2020 dell’attuale governo, per tutte le regioni a prescindere dalla loro capacità di spendere e di spendere bene.
Anzi non si è neanche proceduto da parte dei governi centrali e delle giunte regionali e dei loro apparati tecnico-sanitari ad una rilevazione puntuale e ad una stima tecnicamente seria e coordinata della necessità di aggiornare e rimodulare la rete degli ospedali pubblici ed a quella, ancor più estesa, di realizzare su tutto il territorio nazionale, per ogni quartiere delle grandi/medie città e per ogni comune, le cosiddette “Case della Salute” e le strutture funzionali alla assistenza delle varie forme di cronicità sociosanitaria.
E questo immane tema, strategico per la salute dei cittadini e per la stessa economia italiana, sarebbe affrontabile da ciascuna regione in ordine sparso, ciascuna con propri percorsi autorizzativi, senza adeguati riferimenti tecnici e dotazioni finanziarie a bilancio dello Stato invariato?
Francamente incomprensibile, per un governo e presidenti che ad ogni piè sospinto reclamano di difendere la sanità pubblica è da ultimo l’idea e la prassi non solo di mantenere le agevolazioni fiscali per le assicurazioni private, ma addirittura di procedere a costituire fondi sanitari assicurativi regionali.
Per cosa?
Per assicurare l’accesso alle prestazioni che sono negate in tempi e qualità clinicamente e socialmente accettabili ai cittadini solo a chi può permettersi polizze assicurative a gestione regionale in aggiunta alle tasse che già paga o a scapito dei salari e delle pensioni future, come nel caso del welfare aziendale?
Magari coinvolgendo nel progetto tramite le necessarie riassicurazioni i grandi gruppi finanziari ed assicurativi italiani, come Intesa San Paolo, Unipol e via dicendo?
Questa forma di finanziamento dei servizi sanitari regionali tramite fondi assicurativi parzialmente pubblici, discriminante dei più socialmente ed economicamente deboli, non è forse una modalità di privatizzazione dell’assistenza sanitaria in contraddizione assoluta col modello solidaristico di finanziamento del Servizio Sanitario pubblico tramite la fiscalità generale, peraltro “lacunosa” di “imposte” sulle rendite finanziarie e patrimoniali, per cui chi più ha, più è risparmiato, a prescindere dal pur preoccupante fenomeno della evasione e della elusione fiscale?
Queste alcune delle caratteristiche che strutturali che rendono la richiesta di regionalismo differenziato in sanità da ritirarsi da parte delle regioni che le hanno già presentate e da respingersi da parte di Governo e Parlamento.
Ma a ben veder, meglio studiare, tutte le altre 22 materie sulle quali è possibile chiedere forme ulteriori di autonomia normativa ed amministrativa di livello nazionale, presentano analoghe caratteristiche di velleitarismo regionale, di spinta secessionista ed antisolidale e di pulsione privatistica e rendono questo modello di regionalismo basato sulla autonomia legislativa inadeguato.
La alternativa a questo “regionalismo” miseramente secessionista e velleitariamente autarchico c’è e consiste nel:
- Perseguire un servizio sanitario nazionale pubblico universalistico equo e solidale, come previsto dalla 833/78, in tutte le regioni tramite un regionalismo basato sul principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni, ed attuato tramite Patti per la Salute, senza alcuna modifica della Costituzione vigente ne formale ne “de facto”.
- Adottare il modello dei Patti per la Salute per tutte le materie a legislazione concorrente previste dall’art. 117 della Costituzione!
Gianluigi Trianni
1 marzo 2020