Intervista a Riccardo Ierna, nato a Roma, psicologo-psicoterapeuta, ha lavorato in diversi contesti soprattutto nell’area della riabilitazione psichiatrica e della salute mentale. Ha una discreta esperienza come psicologo anche nell’ambito della assistenza domiciliare integrata in cure palliative a pazienti oncologici. Attualmente vive e lavora in Puglia, dove coordina le attività del Centro diurno sperimentale pubblico cogestito per la salute mentale di comunità “Marco Cavallo” a Latiano, nel brindisino. Da sempre interessato ai temi del movimento antistituzionale e dello sviluppo della medicina critica inaugurati dal lavoro di Franco Basaglia e Giulio Maccacaro, da anni si occupa di ricerca sulla storia dei movimenti di contestazione psichiatrica e di lotta per la salute dagli anni ’60 ad oggi. Di recente è divenuto membro del direttivo nazionale di Medicina Democratica, movimento di lotta per la salute.
Perché il disturbo mentale fa tanta paura alle persone che si ritengono ‘normali’ e l’atteggiamento prevalentemente è di fuga o di esclusione?
Beh direi che intanto dovremmo chiarirci su cosa intendiamo per “normalità” e che cosa significa per una persona definirsi “normale” o ritenersi tale. Io credo che se ponessimo questa domanda a un campione casuale di persone, difficilmente saremmo in grado di avere risposte univoche sul concetto di normalità e di questa particolare condizione in rapporto al disturbo mentale. Come sappiamo infatti la normalità è un concetto piuttosto vago e generico e si declina spesso in modi diversi a seconda dei contesti socioeconomici, delle culture di riferimento e dei significati simbolici, antropologici e psicologici che ogni società storicamente le attribuisce. Se ci si riferisce, per esempio, alla normalità come a un codice normativo stabilito da un sapere (psichiatria) o da un potere (sistema giuridico e penale) sappiamo che esistono diversi modi per ritenere anormale una persona e sanzionarla socialmente. Nel caso della psichiatria sarà considerata folle, nel caso della giurisprudenza, deviante. Tuttavia, è sempre a partire dalla valutazione di un comportamento, appunto “fuori norma”, che noi stabiliamo il livello di normalità o anormalità di qualcuno. Storicamente psichiatria e giustizia sono sempre andate a braccetto nel determinare il confine del rapporto tra normalità e follia, tra ragione e sragione. Ma per rispondere alla tua domanda io credo che dovremmo fare un’ulteriore premessa: e cioè che il discorso sulla paura e l’atteggiamento prevalente di fuga e di esclusione da parte delle persone che si definiscono normali nei confronti delle persone con disturbo mentale, è vero e falso nello stesso tempo. Vero perché è indubbio che esista ancora oggi una tendenza generale a mantenere alcuni pregiudizi sulla persona con disturbo mentale, veicolati spesso da un’informazione distorta da parte dei mezzi di comunicazione di massa, oggi notevolmente rafforzati dalle reti informatiche e dai social media. Una di queste distorsioni fa riferimento all’abitudine da parte dei massmedia di associare la violenza e la pericolosità sociale al disturbo mentale, quando sappiamo ormai da ricerche consolidate e da una mole di dati piuttosto importante, che la percentuale di reati commessi da persone con disagio mentale è pressoché uguale o comunque non superiore alla percentuale di reati commessi dalla popolazione generale. Io credo, tuttavia, che il discorso sia anche falso nella misura in cui, nonostante il bombardamento mediatico quotidiano sullo stretto collegamento tra condotte criminali e disturbi mentali, è radicalmente cambiato l’atteggiamento e la percezione generale dell’opinione pubblica nei confronti del disagio mentale. E questo anche grazie a un enorme lavoro compiuto all’interno delle istituzioni segreganti e alle lotte sociali che lo hanno accompagnato in una stagione ormai remota della storia italiana, che hanno consentito una maturazione sociale e una maggiore apertura della società italiana verso la problematizzazione delle condizioni del “malato di mente”, favorendo l’avvio di una riforma storica della legislazione psichiatrica e delle sue istituzioni come la legge 180. Detto questo, è evidente che oggi le forme di esclusione e di stigmatizzazione sociale possono riguardare non solamente la persona con disturbo mentale, ma anche tutte quelle condizioni ritenute “fuori norma” e relegate ai margini dalla nuova organizzazione sociale e produttiva: i migranti, i poveri, i richiedenti asilo, le diverse soggettività sessuali e di genere, le donne maltrattate e/o che vivono condizioni di subalternità culturale, sociale e lavorativa e le minoranze etniche. Tutte condizioni che riproducono fenomeni di esclusione e di marginalità sociale caratteristiche delle società del neocapitalismo globalizzato.
In un tuo recente articolo pubblicato su “Lavoro e salute” sostieni la difficoltà per una società della perfezione e dei risultati di prendersi cura delle persone con sofferenza mentale. Qual è la postura della nostra organizzazione sanitaria nei riguardi di questi cittadini?
Io credo che la postura della nostra organizzazione sanitaria nei riguardi dei cittadini con disagio mentale rispecchi la postura della nostra organizzazione sociale e produttiva. Con questo intendo dire che in una società iperconsumista e globalizzata, una società che alza continuamente l’asticella in ogni ambito della vita sociale, una società dell’essere e dell’apparire performanti ad ogni costo, non c’è spazio per gli improduttivi o per i “scarti”, qualcuno oggi li definisce in modo abominevole carichi residuali, cioè per coloro che in modi e forme diverse – tra cui anche chi soffre di un disturbo mentale – non si adeguano al codice della produzione e vivono sostanzialmente in una condizione di subalternità materiale e sociale. Lo stesso sistema sanitario ha adeguato le sue istituzioni e la sua mission operativa su una base puramente prestazionale. Oggi non si tratta più, come era nella vecchia idea di riforma sanitaria, di immaginare e produrre forme di cura e di assistenza contestualizzate e adeguate a rispondere universalmente ai bisogni e alla domanda di salute di tutti i cittadini, ma si tratta sostanzialmente di fornire a dei consumatori di servizi prestazioni assistenziali e di cura sempre più privatizzate (per chi potrà permettersele) e impersonali. Mi pare questo un cambio di paradigma di notevole portata, con ricadute piuttosto pesanti sulla presa in carico delle persone più svantaggiate ed esposte alla malattia e alla sofferenza psichiatrica. Oggi chi soffre di un disturbo mentale e non può permettersi un’assistenza privata è più esposto, come ha dimostrato drammaticamente anche la crisi pandemica, alla possibilità di peggiorare la propria condizione a causa dell’impoverimento dei servizi pubblici territoriali e alle culture che li caratterizzano. La risposta di questi servizi alla richiesta di aiuto è nel migliore dei casi una risposta di tipo ambulatoriale e/o farmacologico, cioè di contenimento e silenziamento della sintomatologia manifesta associata, periodicamente, a qualche colloquio psicologico o di prima accoglienza. Sono risposte drammaticamente insufficienti a garantire un’assistenza e una cura adeguate ai bisogni delle persone e a rispondere alle nuove forme di malessere individuale e sociale sempre più crescenti nella popolazione.
Quando parli di “forme democratiche di compartecipazione, di autonomia e di negozialità dell’utenza nell’organizzazione e nel funzionamento di queste istituzioni”, quali sono gli ostacoli ad una simile presa in carico del disturbo mentale?
Per rispondere a questa domanda dovrei parlare di come si sono evolute, o meglio involute, certe forme di partecipazione della cittadinanza nei welfare moderni, e in particolare nell’ambito della sanità e della salute mentale contemporanee. Ma sarebbe un discorso che ci porterebbe troppo lontano e per questo mi limiterò a rispondere che gli ostacoli che impediscono oggi una reale partecipazione, autonomia e negozialità delle persone con disturbo mentale, nei confronti delle istituzioni che le prendono in carico, sono molteplici e riguardano il rapporto tra salute mentale (in tutte le sue articolazioni istituzionali, professionali e culturali), cittadinanza e politica. Un rapporto pieno di compromessi, di contraddizioni laceranti e di limiti strutturali dovuti ad un cambiamento radicale della condizione sociale e dell’organizzazione sanitaria e psichiatrica italiane nel loro complesso. E’ un discorso molto ampio che non posso esaurire qui. Mi basta dire che ci siamo illusi negli ultimi quarant’anni di aver allargato il fronte della partecipazione popolare ai problemi della psichiatria e della sofferenza mentale, forti di una legge che doveva inaugurare una nuova fase di ricomposizione sociale e politica su questi temi. Ma l’illusione è durata poco, perché siamo stati costretti, nonostante l’esperienza di punta della salute mentale italiana (Trieste) sia stata riconosciuta come esperienza pilota dall’OMS, a riciclare modelli di partecipazione provenienti da paesi che da decenni sperimentano forme di governo neoliberali e riformiste, e che utilizzano strumentalmente la retorica della “partecipazione” sui diritti civili, per non affrontare la questione ben più drammatica e urgente dei diritti sociali. L’aumento delle disuguaglianze, l’impoverimento e l’invecchiamento crescente della popolazione, le nuove epidemie, la guerra, le carestie e l’inquinamento globale sono tutti fattori che predispongono oggi a sviluppare nuove forme di sofferenza individuale e sociale. La retorica della partecipazione, una partecipazione svuotata di ogni potere decisionale, di una reale autonomia e di spazi pubblici in cui riaffrontare il tema della gestione sociale, tecnica e politica della follia, costituisce a mio avviso l’ostacolo più forte a un avanzamento generale e a una maggiore consapevolezza sociale su questi temi; forse oggi è il suo avversario più temibile, insieme allo specialismo dei corpi professionali e alla compromissione della politica.
Come ogni persona che soffre, la prima cosa che chiede chi ha un disturbo mentale è quella di sentirsi meglio. In questo l’armadio farmaceutico offre molte soluzioni. Qual è il rapporto tra farmaci e parole e le sue implicazioni in termini di potere?
Forse, non essendo psichiatra e non avendo una competenza cosi approfondita sui farmaci, non sono il più adeguato a rispondere a questa domanda. Quello che posso dire è che conosco l’etimologia della parola farmaco, dal greco φαρμακον, pharmacon che significa antidoto, medicina ma anche veleno. Ovvero il farmaco può avere un effetto curativo ma anche nocivo per l’organismo e questo dipende da come viene usato e in che misura (dosaggio). Ad ogni modo, noi sappiamo che esiste un’ampia letteratura che negli ultimi decenni ha fortemente rimesso in discussione l’uso e l’abuso degli psicofarmaci nella pratica clinica e psichiatrica. Sappiamo ad esempio che gli psicofarmaci di ultima generazione non funzionano molto meglio dei vecchi, anzi spesso i nuovi farmaci sono costituiti da piccole variazioni molecolari dei primi psicofarmaci sintetizzati negli anni ‘50 e che gli effetti collaterali, in entrambi i casi, rimangono comunque molto consistenti e spesso invalidanti per chi li assume. Già questo ci dovrebbe far riflettere sull’uso che se ne fa e sul rapporto che si stabilisce tra psichiatra e paziente, quando mediato solo ed esclusivamente da una prescrizione farmacologica. Ma questo è un discorso vecchio come il mondo e il rischio è sempre quello di banalizzarne la portata inoltrandosi in considerazioni troppo manichee. Io credo che finché saremo in grado di allargare il ventaglio delle opportunità di vita e la variabilità degli strumenti di cura per le persone con disturbo mentale, ma soprattutto la possibilità per loro di padroneggiare e comprendere questi strumenti, di essere interlocutori e gestori primari del proprio progetto esistenziale, noi ridurremo sempre l’effetto di potere di qualunque dispositivo terapeutico utilizzato. In questo senso, il rapporto tra uso degli psicofarmaci e psicoterapia, credo tu intendessi questo quando parlavi di parole, non è immune dal rischio di una lettura riduttiva e settoriale del soggetto, da quella farmacologica a quella psicologica o le due insieme utilizzate come aree di competenza specialistica e di gestione separata del suo malessere. Cosi come non lo è schiacciare tutta la problematica del disturbo mentale solo ed esclusivamente sulla componente sociale. Sappiamo bene che la sofferenza mentale che esprime una soggettività, non si lascia ridurre da nessuna di queste componenti isolate, ma esita dall’intreccio inestricabile di una storia esistenziale che le contiene sovente in misura diversa e complementare.
Quali risorse sono di fatto oggi a disposizione di una famiglia che ha un suo componente affetto da un disturbo mentale? Come può entrare nel percorso assistenziale? Quali sono le differenze con altre parti del paese?
Questa è una domanda che andrebbe rivolta principalmente ai familiari e agli utenti dei servizi. Penso che siano i più qualificati a fornire un quadro esaustivo e reale della situazione dell’assistenza psichiatrica pubblica nel paese. Io credo che oggi le risorse a disposizione di una famiglia che ha un proprio componente affetto da disturbo mentale dipendono certamente da una serie di fattori: le condizioni socioeconomiche del nucleo familiare, il contesto sociale e ambientale in cui vive la famiglia e la presenza di servizi di salute mentale di prossimità nell’area territoriale di riferimento. Nella stragrande maggioranza dei casi almeno due dei tre fattori non sussistono o non sono sufficienti a garantire un’assistenza e una risposta adeguata ai bisogni di salute della persona con disagio mentale e della sua famiglia. In moltissimi casi nessuno dei tre fattori sussiste e la situazione oscilla tra l’abbandono dell’utenza e delle famiglie da parte del servizio e una risposta istituzionale che nel migliore dei casi si riduce al contenimento farmacologico della sintomatologia o al ricovero ospedaliero in regime di TSO. Vi sono ovviamente alcuni elementi di variabilità nei diversi contesti territoriali regionali, ma la sensazione è che negli ultimi decenni la situazione sia complessivamente peggiorata su tutto il territorio nazionale. Quello che vedo dalla mia esperienza sul campo è che la miseria della risposta istituzionale è direttamente proporzionale all’arretramento della politica, al disimpegno degli amministratori e alla deriva specialistica o ideologica dei corpi professionali. Mentre la povertà, l’assenza o la carenza dei servizi sembrerebbe, almeno in alcune aree più depresse delle nostre periferie geografiche, inversamente proporzionale alla capacità della cittadinanza di agire e auto-mobilitarsi per offrire risposte non istituzionali al disagio diffuso e al malessere sociale (questa forma di attivazione dal basso pare essersi consolidata soprattutto nel periodo pandemico). Mi pare questa l’espressione di una nuova tendenza sociale a offrire modelli alternativi di gestione della salute e della malattia, in un momento di forte contrazione dei servizi e di crisi del sistema sanitario nazionale (non uso il termine servizio perché credo che da tempo abbia perso quella connotazione valoriale e operativa contenuta nella riforma sanitaria). Quanto questa nuova tendenza sia in grado oggi di sopperire parzialmente alla crisi dei servizi al momento non saprei dire. È indubbio però che esista una spinta all’auto-organizzazione sociale sul tema della salute pubblica che non può essere più sottovalutata e che andrebbe piuttosto approfondita e problematizzata.
Come si potrebbe andare oltre l’etichettamento di una diagnosi investendo su incontri educativi e sulla piena inclusione di persone con disagio psichico?
Credo di aver già dato una traccia di risposta a questo interrogativo rispondendo alla domanda precedente. Non so cosa tu intenda per incontri educativi. Se ti riferisci a un maggior coinvolgimento della cittadinanza attraverso incontri di sensibilizzazione sul tema dello stigma e della “malattia mentale”, credo che da anni esista in diverse realtà dipartimentali italiane questa modalità di organizzare la partecipazione. Mi riferisco alle settimane della salute mentale, alle giornate mondiali dedicate al tema della salute mentale e a tante altre iniziative o manifestazioni di interesse promosse e organizzate anche dal privato sociale (e non) che gestisce pezzi di servizio pubblico: penso in particolare a tutta l’area della riabilitazione psichiatrica e psicosociale. Tuttavia, mi sembra che negli anni questo modo di procedere non abbia portato grandi cambiamenti né sul versante dei servizi, né su quello dell’inclusione sociale e né sulla capacità della cittadinanza di incidere sulle politiche pubbliche e sugli assetti organizzativi e istituzionali della salute mentale italiana. Sarebbe necessario interrogarsi su i motivi di questa profonda impasse che dura ormai da più di quarant’anni, e chiedersi cosa realmente non sta funzionando nei processi di partecipazione e nelle culture dei servizi. Ma quello dell’autocritica è un esercizio che si addice poco alle vecchie e nuove dirigenze della residuale psichiatria alternativa italiana. Si preferisce continuare a speculare sulla memoria, l’esemplarità e la monumentalità di un passato non più utilizzabile, piuttosto che guardare alla miseria del presente provando senza retorica a cambiarne nuovamente il destino. Il mio auspicio è che questa volta la spinta al cambiamento arrivi soprattutto dalla cittadinanza, cioè dal popolo, cosi come avrebbero voluto gran parte di coloro che hanno lottato e lavorato per abolire le istituzioni segreganti e ogni forma di oppressione e di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Mi sembra, come dicevo rispondendo alla domanda precedente, che qualcosa si stia muovendo in tal senso. Staremo a vedere se avrà la forza di emergere come movimento politico e culturale di pressione, in grado di trascinare la società civile e tutte le altre componenti istituzionali e sociali su un tema cosi importante come quello della salute mentale e della salute pubblica in generale.
Intervista a cura di Maurizio Portaluri
5 dicembre 2022